I neutrini mutanti

(pubblicato sul Manifesto di mercoledì 7 ottobre 2015)
Il giapponese Takaaki Kajita e il canadese Arthur B. McDonald si sono aggiudicati il premio Nobel per la fisica del 2015 per le loro scoperte sui neutrini “mutanti”. Tra gli anni ’90 e l’inizio del millennio, Kajita e McDonald sono riusciti a dimostrare sperimentalmente (e in maniera indipendente) che tali particelle cambiano aspetto mentre attraversano il cosmo a velocità prossima a quella della luce. Dal 1988, è il quarto premio Nobel assegnato per scoperte che riguardano i neutrini, che infatti rappresentano uno dei più affascinanti rompicapo della fisica contemporanea. La particella fu ipotizzata per la prima volta da Wolfgang Pauli nel 1930, ma fu Enrico Fermi a darle il nome attuale. Nei fenomeni radioattivi studiati dal fisico italiano una parte dell’energia sembrava “svanire” nel nulla. Fermi capì che essa veniva invece trasportata da questa particella veloce, leggera e priva di carica elettrica. Solo nel 1955 il neutrino fu rilevato direttamente, ma le sue proprietà sono rimaste misteriose. Purtroppo per noi, attraversa la materia quasi indisturbato ed è dunque difficilissimo intercettarlo e studiarlo.
Oggi sappiamo che il neutrino ha una massa piccolissima (ma ignota), viaggia a velocità prossime a quella della luce e si presenta in tre forme diverse: esistono i neutrini elettronici, quelli studiati da Fermi, ma anche quelli “tauonici” e “muonici” (dalle particelle tau e mu) a cui si associa. Fu un altro italiano, Bruno Pontecorvo, a teorizzare per primo che il neutrino potesse mutare da una forma all’altra. Secondo la teoria quantistica, questo presuppone che il neutrino abbia una massa. Ma ciò contraddice il modello Standard, la più affidabile teoria dell’universo sviluppata finora — la scoperta del bosone di Higgs, premiato nel 2013, ne aveva dato una conferma sperimentale apparentemente definitiva.
Kajita e McDonald hanno risolto la questione con due esperimenti analoghi. Kajita ha costruito un rilevatore di neutrini un chilometro al di sotto di una miniera di zinco a nord di Tokyo, mentre McDonald si è “nascosto” sotto un ex-giacimento di nichel dell’Ontario. In quelle condizioni estreme, dove solo i neutrini riescono a penetrare, Kajita e McDonald sono riusciti a contare (letteralmente) le particelle che giungono dall’atmosfera e dal Sole e a risolvere il mistero dei neutrini mancanti.
Le reazioni nucleari che accendono la nostra stella, infatti, dovrebbero generare solo neutrini del tipo elettronico. Eppure, secondo i rilevatori degli anni ‘60, i neutrini elettronici provenienti dal Sole sono molto meno numerosi del previsto. Qualcuno, allora, pensò che il Sole si stesse spegnendo, un’ipotesi tutt’altro che rosea per i terrestri. A salvare l’umanità pensò McDonald: il suo strumento, nel 1999, scoprì che i neutrini solari mancanti giungevano anch’essi sulla Terra, ma in un’altra tipologia. È il segno che i neutrini elettronici, nei 150 milioni di chilometri che ci separano dal Sole, cambiano forma, o come dicono i fisici, “sapore” (flavor). I dati raccolti da Kajita sui neutrini atmosferici combaciavano perfettamente e, negli anni successivi, altri laboratori come quello costruito sotto il Gran Sasso hanno confermato l’ipotesi di Pontecorvo: i neutrini “oscillano” da una forma all’altra. Dunque, hanno una massa e il Modello Standard andrà rivisto, chissà come.
Le scoperte di Kajita e McDonald, dunque, oltre a fornire nuove informazioni sui neutrini, hanno rimesso in moto la fisica. I neutrini, d’altronde, ci hanno abituato alle rivoluzioni. Il lettore ricorderà che, nel 2011, qualcuno affermò che andavano più veloci della luce, violando la teoria della relatività. Einstein tremò per qualche mese, poi si scoprì che c’era un guasto nell’apparecchiatura. Stavolta la crepa è nella teoria. Chi ha detto che la storia è finita, si è sbagliato di nuovo.
(pubblicato sul Manifesto di mercoledì 7 ottobre 2015)

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