I primi crateri lunari disegnati da Galileo appaiono in un appunto del 1610 sotto un oroscopo dedicato al suo ex-allievo e futuro datore di lavoro, Cosimo II de’ Medici. Questo semplice documento, in apparenza secondario, fornisce spunti sufficienti per scoprire i temi principali della ricerca di Bruno Latour, sessantaseienne sociologo delle scienze e docente alla facoltà parigina di scienze politiche: l’abilità dello scienziato nella manipolazione dei segni e la convivenza, nel nascente pensiero moderno, di empirismo e superstizione. È lecito dunque parlare di «rivoluzione» scientifica?Numerose sollecitazioni analoghe, scaturite da dettagli, ritagli e citazioni pop, animano le lezioni universitarie di Latour raccolte in Cogitamus. Sei lettere sull’umanesimo scientifico, appena pubblicato per Il Mulino (pp. 192, euro 16). Le «lettere» sono indirizzate ad un’ipotetica studentessa giudiziosa, ma poco convinta dalle tesi di Latour. Non si tratta però di dispense – come si chiamavano ai tempi dei mitici «uffici fotocopie» delle facoltà – da portare all’esame. Piuttosto, assomigliano a un compendio delle tecniche artigianali affinate dal maestro di bottega nel suo percorso di ricerca.
Si tratta di strumenti semplici, a cominciare da un taccuino di annotazioni: osservando attentamente il dibattito sui media si può notare la continua contaminazione tra enunciati scientifici e discorso politico. Forse tra dimostrazione e retorica non esiste una frontiera invalicabile, azzarda Latour. Ogni fatto scientifico assodato diventa tale quando, intorno a un concetto opinabile, si connette una rete di attori e di interessi sociali (non esclusivamente accademici) sufficientemente solida. Il sociologo ne ricava un paradosso: se la rete è sufficientemente robusta, il fatto scientifico appare indiscutibile, «naturale». Di conseguenza, più la costruzione sociale è forte e meno riusciamo a vederla. Così si spiega un equivoco assai diffuso, secondo cui la modernità coinciderebbe con l’emancipazione del sapere tecnico-scientifico da opinioni politiche e credenze religiose. Per Latour, la cui opera più influente si intitola Non siamo mai stati moderni (Eleuthera, 1995), è vero il contrario. Cartesio può celebrare la Ragione e pronunciare il suo «Cogito ergo sum» solo quando la scienza europea si organizza in società accademiche, si attrezza di riviste specializzate, si manifesta in dibattiti pubblici: quando diviene una forza sociale, che meriterebbe un più sonoro «Cogitamus!».
Un analogo caso può ripetersi per Platone, Kant, il Circolo di Vienna o il dibattito sulle cause dei mutamenti climatici. L’intreccio tra scienza e società si cela dietro l’antagonismo presunto dai teorici della modernità. «Per imparare a politicizzare le scienze, bisogna depoliticizzarle» – un paradosso tira l’altro. Invece, «i politici assegnano alla scienza un ruolo simile a quello dell’Europa di Bruxelles: in nome di un’autorità superiore fanno apparire come ineludibili le decisioni che non hanno il coraggio di prendere in prima persona». Quando Latour scriveva queste parole (2010), il governo Monti era ancora di là da venire.
La costruzione sociale che accompagna la scoperta scientifica non ne diminuisce la validità, né deve confondere chi voglia intraprendere una carriera scientifica. Anzi, il calo di interesse verso gli studi scientifici registrato dalle statistiche, secondo Latour, è dovuto all’errata impressione che la ricerca consista nell’esecuzione di protocolli prestabiliti. Chi abbia a cuore la scienza farebbe meglio a esplicitarne la dimensione collettiva e dialettica, invece di nasconderla come uno scheletro nell’armadio.
Diversi scienziati, in realtà, se ne sono accorti: è stata coniata anche la locuzione citizen science per indicare i sempre più numerosi programmi di ricerca in cui gli studiosi coinvolgono direttamente i cittadini nelle sperimentazioni – non come cavie, ma in quanto collaboratori alla raccolta dei dati. Come gli attori che rompono la «quarta parete», si palesano dunque i meccanismi di consenso sociale che (non da soli) compongono una scoperta scientifica. «Esplicitazione», più che «emancipazione»: è questa la freccia del tempo che indirizza la storia, sostiene Latour citando Peter Sloterdijk.
Non bastassero le lezioni, non resterebbe che consigliare alla studentessa dubbiosa un Erasmus in Italia. Le nostrane vicende di palazzo permettono di osservare in vivo la continua contaminazione tra i saperi e il loro contesto sociale, di cui mutuano obiettivi, linguaggi e organizzazione. Il governo dei tecnici, sconfitto nelle urne e sui mercati, ha mostrato tutta l’impotenza degli esperti e i nuovi protagonisti a 5 stelle oscillano tra tecno-utopie e i peggiori complotti anti-casta.
È un atteggiamento diffuso, già rilevato da Massimiano Bucchi (autore della prefazione alle «sei lettere») in un saggio intitolato Scientisti e anti-scientisti e pubblicato dallo stesso editore nel 2010. La popolazione italiana dimostra un’elevata fiducia nei confronti degli esperti, accompagnata da un generale analfabetismo scientifico. Le due fazioni del saggio studiate da Bucchi si rafforzano a vicenda nel dibattito pubblico. Per personaggi come Galileo Galilei nutriamo dunque un profondo rispetto, ma anche una certa nostalgia: quando c’era lui, dicono, l’oroscopo ci azzeccava sempre.
(pubblicato su Il Manifesto del 23 maggio 2013)