I neutrini mutanti

(pubblicato sul Manifesto di mercoledì 7 ottobre 2015)
Il giapponese Takaaki Kajita e il canadese Arthur B. McDonald si sono aggiudicati il premio Nobel per la fisica del 2015 per le loro scoperte sui neutrini “mutanti”. Tra gli anni ’90 e l’inizio del millennio, Kajita e McDonald sono riusciti a dimostrare sperimentalmente (e in maniera indipendente) che tali particelle cambiano aspetto mentre attraversano il cosmo a velocità prossima a quella della luce. Dal 1988, è il quarto premio Nobel assegnato per scoperte che riguardano i neutrini, che infatti rappresentano uno dei più affascinanti rompicapo della fisica contemporanea. La particella fu ipotizzata per la prima volta da Wolfgang Pauli nel 1930, ma fu Enrico Fermi a darle il nome attuale. Nei fenomeni radioattivi studiati dal fisico italiano una parte dell’energia sembrava “svanire” nel nulla. Fermi capì che essa veniva invece trasportata da questa particella veloce, leggera e priva di carica elettrica. Solo nel 1955 il neutrino fu rilevato direttamente, ma le sue proprietà sono rimaste misteriose. Purtroppo per noi, attraversa la materia quasi indisturbato ed è dunque difficilissimo intercettarlo e studiarlo.
Oggi sappiamo che il neutrino ha una massa piccolissima (ma ignota), viaggia a velocità prossime a quella della luce e si presenta in tre forme diverse: esistono i neutrini elettronici, quelli studiati da Fermi, ma anche quelli “tauonici” e “muonici” (dalle particelle tau e mu) a cui si associa. Fu un altro italiano, Bruno Pontecorvo, a teorizzare per primo che il neutrino potesse mutare da una forma all’altra. Secondo la teoria quantistica, questo presuppone che il neutrino abbia una massa. Ma ciò contraddice il modello Standard, la più affidabile teoria dell’universo sviluppata finora — la scoperta del bosone di Higgs, premiato nel 2013, ne aveva dato una conferma sperimentale apparentemente definitiva.
Kajita e McDonald hanno risolto la questione con due esperimenti analoghi. Kajita ha costruito un rilevatore di neutrini un chilometro al di sotto di una miniera di zinco a nord di Tokyo, mentre McDonald si è “nascosto” sotto un ex-giacimento di nichel dell’Ontario. In quelle condizioni estreme, dove solo i neutrini riescono a penetrare, Kajita e McDonald sono riusciti a contare (letteralmente) le particelle che giungono dall’atmosfera e dal Sole e a risolvere il mistero dei neutrini mancanti.
Le reazioni nucleari che accendono la nostra stella, infatti, dovrebbero generare solo neutrini del tipo elettronico. Eppure, secondo i rilevatori degli anni ‘60, i neutrini elettronici provenienti dal Sole sono molto meno numerosi del previsto. Qualcuno, allora, pensò che il Sole si stesse spegnendo, un’ipotesi tutt’altro che rosea per i terrestri. A salvare l’umanità pensò McDonald: il suo strumento, nel 1999, scoprì che i neutrini solari mancanti giungevano anch’essi sulla Terra, ma in un’altra tipologia. È il segno che i neutrini elettronici, nei 150 milioni di chilometri che ci separano dal Sole, cambiano forma, o come dicono i fisici, “sapore” (flavor). I dati raccolti da Kajita sui neutrini atmosferici combaciavano perfettamente e, negli anni successivi, altri laboratori come quello costruito sotto il Gran Sasso hanno confermato l’ipotesi di Pontecorvo: i neutrini “oscillano” da una forma all’altra. Dunque, hanno una massa e il Modello Standard andrà rivisto, chissà come.
Le scoperte di Kajita e McDonald, dunque, oltre a fornire nuove informazioni sui neutrini, hanno rimesso in moto la fisica. I neutrini, d’altronde, ci hanno abituato alle rivoluzioni. Il lettore ricorderà che, nel 2011, qualcuno affermò che andavano più veloci della luce, violando la teoria della relatività. Einstein tremò per qualche mese, poi si scoprì che c’era un guasto nell’apparecchiatura. Stavolta la crepa è nella teoria. Chi ha detto che la storia è finita, si è sbagliato di nuovo.
(pubblicato sul Manifesto di mercoledì 7 ottobre 2015)

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Bergamini libero

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Bergamini è vivo.

A me il Post piace. Mi piace che se c’è la Luna rossa, facciano articoli sulla Luna rossa, non sul dito rosa che la punta. Sembra facile, ma lo fanno solo loro. Sul Post scrive anche Giacomo Papi. Giacomo Papi, ieri, ha pubblicato un pezzo per dire c’è un tizio a Modena che vende più di Saviano, e scrive di matematica. No, non si chiama Rovelli (quello scrive di fisica). Si chiama Bergamini, ha scritto il manuale di matematica più venduto alle superiori. Papi lo ha intervistato, e ha scoperto che Bergamini è un tipo interessante. È un ex-insegnante ed ex-preside e cita Calvino, Raffaello e le loro geometrie. Un vero intellettuale, che lavora “365 giorni l’anno” al suo libro,  che continua a migliorare ogni anno, grazie anche all’aiuto della moglie, ex-insegnante e ora sua collaboratrice. Ci credo che venda più di Saviano, mica è un copia-e-incolla qualunque. Finalmente Papi gli ha reso la giusta fama.

Certo, c’è anche il merito della casa editrice, che ha saputo valorizzarlo: “Lei ha l’idea che avevo anche io all’inizio: una volta fatto il libro sono a posto. Invece la casa editrice mi chiese subito di farne un altro.” Ma come migliorare un simile capolavoro? Lo aiuta Calvino: “Tutta la mia opera in fondo è cercare ad avere sempre maggiore leggerezza”. Poi c’è la bellezza, e le discussioni con la moglie: “Perché questo esercizio l’hai buttato via?”. E io rispondo: “Non lo vedi che è brutto? Non è mica bello”.

L’intervista prosegue così, tra Calvino e Platone, fino alla fine. Bello, vero e giusto. Peccato quella nota stonata, che Papi non ha colto, e che spiega il vero significato dell’intervista: “Per fare una cosa sempre più bella l’unica è ascoltare la rete commerciale, che è la sola strada che ti fa conoscere le esigenze del mondo della scuola” Perché il Bergamini è bello, ma soprattutto caro, sui trenta euro a volume. Rende tantissimo e vende un milione di copie l’anno. Bisogna difenderlo dai suoi nemici, che sono le librerie dell’usato e i medici. Dal 1997 del Bergamini sono uscite ennemila “nuove” edizioni in modo che ogni anno gli alunni debbano comprare il libro nuovo invece che riciclare quello della sorella grande. Come si fa? Basta cambiare un esercizio (“non lo vedi che è brutto?”). Bisogna lavorarci sempre, ogni anno. Brutta bestia, quelli dell’usato.

Ma i medici? Gli ortopedici non smettono di dirci che gli zaini dei nostri fanciulli sono troppo pesanti, e noi? Zac, facciamo libri più leggeri, come voleva Calvino. Non ho mai sentito nessuno, alunno insegnante pediatra genitore o ministro, lamentarsi che il libro di quest’anno è più corto. Sistemati anche i medici.

Perché Papi non ha parlato di questo, dell’editoria scolastica fuori controllo che in questi giorni decurta la busta paga di milioni di famiglie? Perché non lo ha capito. Bergamini parla in codice.

Bergamini, infatti, non è un uomo libero. Probabilmente è stato sequestrato dalla Zanichelli che lo costringe a lavorare 24 ore al giorno alle nuove edizioni, i nuovi volumi, i nuovi esercizi. Altrimenti,  da ex-preside si godrebbe la sua pensione calcolata col retributivo. Invece no, deve usare messaggi cifrati e sperare che qualcuno li capisca e organizzi un blitz per liberarlo. Ha cercato di farlo capire a Papi, con quella frase sulla rete commerciale che lo tiene prigioniero. E con altri messaggi sibillini ma non troppo: “Ci sono quaranta collaboratori che lavorano a ogni edizione, sa? Adesso, per esempio, ce n’è uno di là che mi aspetta.”

Ma il suo stesso libro nel tempo si è trasformato in un memoriale dalla prigione, un messaggio nella bottiglia finora incompreso. Ecco perché il suo manuale di matematica, nelle edizioni recenti, inizia così: “Le scritture usate oggi nel mondo sono 33. Con ognuna di tali scritture (alfabeti) si scrivono più lingue…” Bergamini ci sta chiedendo di capire il suo messaggio, teme di fare una brutta fine. La sua intervista è zeppa di riferimenti a forze oscure, parla de “la geometria che ci circonda ma che rimane nascosta.” Dà riferimenti geografici: “È più realtà quella lì, la puzza di pesce al mercato, o la mappa che ti permette di trovare un filo e ti fa andare da un punto all’altro della città? “. Forse la prigione è vicina alla pescheria. Altre metafore sono ancora da decifrare: “Un elettricista ha bisogno di un cacciavite. Noi siamo il cacciavite. Siamo solo la racchetta da tennis”.

L’agente Papi doveva salvarlo, ma ha fallito. Se non si fosse trattato di un umile ex-prof, per liberarlo avrebbero organizzato rastrellamenti, pedinamenti, sedute spiritiche. Per lui non hanno mosso un dito. È ancora qui, fermo, lo vedete bene?

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La scoperta dell’acqua fredda

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I canali di Schiaparelli. Un po’ troppo dritti.

Con il solito senso dello spettacolo, l’Agenzia Spaziale Statunitense (NASA) ha annunciato di aver trovato indizi secondo cui su Marte scorre acqua “salata”, cioè contenente perclorati. L’annuncio è arrivato durante un’attesa conferenza stampa, annunciata con largo anticipo per ottenere la migliore audience internazionale. La Nasa ormai ci ha abituato a questi colpi ad effetto, capaci di trasformare una scoperta “minore” in un avvenimento mediatico globale.

La scoperta dell’acqua marziana è stata realizzata grazie allo spettrometro HiRise, messo a punto all’università dell’Arizona. Le immagini ottenute da HiRise mostrano un gran numero di solchi scavati sulle pendenze dei crateri marziani, in cui sono depositati sali di possibile origine fluviale. Secondo gli scienziati Nasa (e delle numerose università che hanno contribuito alla missione) l’acqua è attualmente presente su Marte, solo che evapora durante l’estate.

La scoperta dell’acqua su Marte non è un’assoluta novità. Immagini che dimostravano che quei solchi sono fiumi in secca furono ottenute già quasi dieci anni fa da altre sonde. In questi anni, però, le tecnologie di analisi sono molto migliorate e i dati di oggi sono più accurati. Per questo la Nasa oggi parla di “scoperta” (finding) e non di semplice ipotesi. La teoria dei canali su Marte, poi, circolava anche tra gli astronomi dei secoli passati. L’italiano Schiaparelli ne parlò già nel 1877, dopo averli osservati col telescopio. Per colpa di una cattiva traduzione (da “channels” a “canal”, che significa “canale artificiale”) i canali divennero il presunto lascito di una civiltà marziana.

Oggi le aspettative sono molto ridimensionate, ma l’acqua marziana interessa gli astronomi per un motivo analogo. Essa è ritenuta un ingrediente fondamentale dello sviluppo della vita sulla terra a causa delle sue peculiarità fisiche. Ad esempio, l’acqua ha la particolarità di diventare meno densa quando congela. Per convincersi, basta pensare ai cubetti di ghiaccio che galleggiano nell’acqua. Grazie a questa proprietà, gli organismi che abitano mari e laghi ghiacciati sopravvivono, in quanto al di sotto della crosta solida l’acqua mantiene una temperatura accettabile.

Il problema è che nella regione del sistema solare in cui si trova Marte, cioè a quelle condizioni termiche, l’acqua non dovrebbe trovarsi allo stato liquido – questo è il criterio con cui si definisce la “zona abitabile” di un sistema di pianeti che ruota intorno a una stella. È in quella zona che si cercano i pianeti extrasolari più “interessanti”, perché potrebbero ospitare vita. E Marte è considerato esterno a quella fascia di abitabilità. La scoperta di oggi cambia un po’ le carte. La presenza di sali, com’è noto, può modificare il comportamento dell’acqua consentendole di rimanere liquida – almeno temporaneamente – anche fuori da quella fascia. I pianeti con potenziale vita extraterrestre, per usare il linguaggio immaginifico della Nasa, potrebbero essere molto più numerosi. Festeggeranno gli ufologi. I dipendenti dell’ufficio stampa della Nasa, un po’ meno.

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Avventure fuori dal mondo

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Il compagno Belyayev teneva aperta la portiera della navetta spaziale.

Tra gli espe­ri­menti rea­liz­zati da Saman­tha Cri­sto­fo­retti sulla Sta­zione Spa­ziale Inter­na­zio­nale c’era anche il caffè. L’astronauta, infatti, in vista della lunga per­ma­nenza sulla sta­zione aveva por­tato con sé anche una sofi­sti­cata (e grif­fata) mac­china in grado di pre­pa­rare espressi e tisane in assenza di gra­vità. L’elettrodomestico sarà apprez­zato anche dai turi­sti spa­ziali che in un pros­simo futuro soster­rano i bilanci tra­bal­lanti delle agen­zie spa­ziali con i loro costo­sis­simi biglietti di viag­gio. Un domani, la Sta­zione orbi­tante con i letti a castello, le chat su Skype, i turi­sti in cia­batte e ora anche il distri­bu­tore del caffè somi­glierà a quei lus­suosi ostelli scan­di­navi, puliti ma noiosetti?

Impro­ba­bile: mal­grado sem­bri facile come bere un caffè, una mis­sione spa­ziale com­porta tut­tora una note­vole dose di rischio e gli impre­vi­sti non man­cano mai. In realtà, dal primo viag­gio spa­ziale di Gaga­rin (1961) ci sono stati solo quat­tro inci­denti mor­tali, con diciotto vit­time in tutto su oltre tre­cento voli. Ma anche nelle mis­sioni finite bene, spesso l’incidente tra­gico è stato evi­tato in extre­mis per la for­tuna o l’incredibile abi­lità degli astronauti.

Alcune di que­ste avven­ture sono dive­nute cele­bri. Sulla mis­sione Apollo 13 del 1970, desti­nata a giun­gere sulla Luna ma costretta a rien­trare per l’esplosione di un ser­ba­toio hanno fatto anche un film. I tre astro­nauti non dram­ma­tiz­za­rono troppo («Hou­ston, abbiamo avuto un pro­blema», disse in realtà il coman­dante Lovell, a cose evi­den­te­mente già avve­nute). Ma dovet­tero schiac­ciarsi per quat­tro giorni nel minu­scolo modulo lunare e per ovviare alla man­canza d’ossigeno costrui­rono un fil­tro per l’anidride car­bo­nica con il mate­riale a dispo­si­zione sulla navi­cella. Seguiti in mon­di­vi­sione, riu­sci­rono a tor­nare a casa e Lovell si prese anche la sod­di­sfa­zione di una com­par­sata nel film sulla sua stessa vicenda.

Défail­lance da dimen­ti­care
Epi­sodi del genere sono sem­pre stati abba­stanza fre­quenti, anche se ini­zial­mente non hanno goduto di grande pub­bli­cità: la Guerra Fredda scon­si­gliava di esi­bire segni di debo­lezza soprat­tutto nell’Unione Sovie­tica, i cui cosmo­nauti nei primi tempi bat­te­vano rego­lar­mente i col­le­ghi ame­ri­cani.
Più che la peri­zia degli inge­gneri, però, l’arma deci­siva dei russi era la pel­lac­cia dei loro astro­nauti. Uno dei più spe­ri­co­lati doveva essere Ale­xei Leo­nov, l’uomo che per primo ha flut­tuato nello spa­zio fuori da un vei­colo in orbita [continua sul sito del Manifesto, dove farsi l’account è gratis].

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Scienziati in trincea

da Il Manifesto del 4 luglio 2015

Parafrasando Margaret Thatcher che si riferiva alla società, agli uomini e alle donne, si potrebbe affermare che non esiste una cosa chiamata “comunità scientifica”, ma solo ricercatori e ricercatrici. È questa l’immagine restituita dalla lettura di due libri pubblicati da poco e vicini anche per l’oggetto trattato. Il primo ha per titolo “Al servizio del Reich. Come la fisica vendette l’anima a Hitler” e lo ha scritto per Einaudi Philip Ball, uno dei più noti divulgatori scientifici anglosassoni, grazie alla traduzione di Daniele A. Gewurz. Il secondo è “La scienza in trincea. Gli scienziati italiani nella prima guerra mondiale”, pubblicato dalo storico della scienza Angelo Guerraggio per l’editore Raffaello Cortina. Come il lettore avrà capito, entrambi gli autori analizzano come gli scienziati se la siano cavata in due momenti storici piuttosto problematici, in cui il concetto di “comunità” è stato messo duramente alla prova. Nel farlo, ci costringono a riconsiderare alcuni luoghi comuni piuttosto radicati sulla ricerca e sui ricercatori.

Per esempio, secondo un’opinione diffusa gli scienziati sarebbero immuni dai particolarismi che agitano le esistenze di noialtri incompetenti. Eppure, nella prima metà del Novecento il nazionalismo obnubilò anche le menti più brillanti, dividendo studiosi abituati fin lì a collaborare. Cervelli visionari capaci di vertiginose rivoluzioni scientifiche, infatti, non mostrarono anticorpi efficaci contro la propaganda di governo.

Lo testimonia l’adesione dei numerosi premi Nobel al manifesto Fulda (dal nome del suo estensore), con cui 93 intellettuali tedeschi difesero l’invasione del Belgio del 1914 negando atrocità già ammesse dagli stessi militari. Spiccò per la sua assenza la firma di Albert Einstein mentre un altro gigante, Max Planck, non fece mancare la sua (poi se la rimangiò). Sulla sponda opposta, l’interventismo anti-tedesco coinvolse matematici, fisici e chimici italiani, che in pochissimi mesi seppero convertirsi all’ideologia della “guerra giusta” (concetto più vecchio di quanto si pensi, osserva Guerraggio) contro una nazione alleata. Il più influente fu il matematico Vito Volterra, uno degli studiosi italiani più noti all’estero, che rinnegò in pochi mesi il suo neutralismo e le sue collaborazioni internazionali per arruolarsi all’istituto militare di aeronautica, dove poté mettere a frutto le sue conoscenze fisiche e matematiche. Uomo fin lì moderato, Volterra usò toni da scontro di civiltà contro i tedeschi, “i nuovi barbari la cui condotta ricorda le invasioni di altri tempi”. Insieme a lui si arruolarono scienziati di ogni orientamento politico. Picone, Severi, Fubini, Garbasso diedero un importante contributo alle scienze balistiche nel campo dell’artiglieria; Pesci, Ciamician e Paternò si dedicarono ai gas asfissianti e alle loro contro-misure; Molinari e Corbino lavorarono al settore esplosivi.

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Una mente scomoda

Da “il Manifesto” del 24 giugno 2015

cini_2«A cinquant’anni, guar­dan­dosi allo spec­chio, uno si trova davanti un per­so­nag­gio sul quale ci sarebbe molto da ridire», scri­veva Mar­cello Cini nel 2001. Non fosse scom­parso tre anni fa, oggi ne avrebbe novan­ta­due, e mol­tis­simo da ridire. Senza dub­bio, il «per­so­nag­gio Cini» ha ancora tanto da rac­con­tare a chi lo la letto ieri o comin­cia a farlo oggi. Soprat­tutto, a que­sti ultimi risul­terà utile il libro appena pub­bli­cato dalle Edi­zioni ETS, Per una scienza cri­tica. Mar­cello Cini e il pre­sente: filo­so­fia, sto­ria e poli­ti­che della ricerca, anto­lo­gia di dician­nove saggi curata da Elena Gagliasso, Mat­tia Della Rocca e Rosanna Memoli. I con­tri­buti rac­colti rico­strui­scono il per­corso scien­ti­fico, poli­tico e filo­so­fico di Cini e lo met­tono alla prova su diverse que­stioni attuali, dalle neu­ro­scienze alla non-neutralità del para­digma eco­no­mico dominante.

Pro­prio sull’espressione «non-neutralità», Cini aveva una sorta di copy­right. Ci sono diversi modi di cri­ti­care la scienza e gli scien­ziati, ma chi ne mette in discus­sione la «neu­tra­lità» fa quasi sem­pre rife­ri­mento a un cele­bre e stra­nis­simo libro, L’ape e l’architetto, che Fel­tri­nelli pub­blicò nel 1976, l’editore Fran­coAn­geli nel 2011 e che valse a Cini la fama di «cat­tivo mae­stro». L’Ape, infatti, è una rac­colta di arti­coli scritti da lui, cin­quan­tenne e affer­mato docente di fisica teo­rica alla Sapienza, e da tre gio­vani col­le­ghi (Gio­vanni Cic­cotti, Miche­lan­gelo De Maria e Gio­vanni Jona-Lasinio). Vi si sostiene che la scienza, per­sino la fisica teo­rica più astratta, sia ideo­lo­gi­ca­mente influen­zata dal con­te­sto capi­ta­li­stico in cui opera. Dun­que, non rap­pre­senta di per sé un fat­tore di pro­gresso sociale, come invece si rite­neva anche nel Pci «sviluppista».

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Ridammi quella pancia

Nel suo intervento all’ultima direzione del PD Renzi ha dato lezioni di garantismo a Rodotà. Rodotà, invocando l’articolo 54 della Costituzione (“I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore”) a proposito di Mafia Capitale, ha chiesto che anche prima delle sentenze certi incarichi siano revocati. Dunque Rodotà non vuole più gente in galera, come Renzi invece renzi gli attribuisce, ma meno cittadini disonorevoli nei consigli comunali, nelle commissioni, nei dipartimenti amministrativi. D’altro canto, il giustizialista solitamente invoca la legge, che ci dice cosa non possiamo fare, per estenderne oltremisura le conseguenze. La Costituzione invece non porta acqua al mulino giustizialista, perché sta lì a ricordare cosa dovrebbero fare i cittadini perbene come Renzi e Rodotà e dei delinquenti presunti si occupa poco, e per lo più a loro difesa.

Piuttosto, chi invece ha chiesto più galera è stato Renzi, proprio nello stesso discorso in cui ha attaccato Rodotà. Ha ritirato fuori la storia del diciannovenne (“di etnia rom”) scarcerato troppo presto dopo la tragedia di Boccea. Dalla platea del Pd non si sono sentite proteste. Eppure, parecchi media volenterosi hanno spiegato che quel diciannovenne non è colpevole non dico per la Cassazione, ma nemmeno per il Gip che si sta occupando del caso. Renzi ha fatto propria l’indignazione della destra e di chi, avendo fretta e poco tempo per farsi un’idea più accurata, si aspetta una giustizia altrettanto spiccia. Il video dell’intervento di Renzi sta qui.

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Professore, la Finlandia copia!

Basta con le mate­rie. Non si andrà più a lezione di mate­ma­tica, sto­ria, inglese e così via. Si stu­dierà per argo­menti inter­di­sci­pli­nari come «Il tempo in Europa», in cui le lin­gue stra­niere e la geo­gra­fia si impa­rano nella stessa ora.

Dove suc­ce­derà? In Fin­lan­dia, la «solita» Fin­lan­dia. Ormai nelle scuola la chia­mano così. Per­ché ogni volta che si discute di come miglio­rare le nostre scuole, c’è sem­pre qual­cuno che cita il paese di Babbo Natale come modello da seguire. Da anni, gli alunni fin­lan­desi si piaz­zano ai primi posti delle clas­si­fi­che mon­diali per livelli di appren­di­mento, men­tre i nostri arran­cano nelle posi­zioni medio-basse. Le scuole fin­lan­desi sono diven­tate meta di pel­le­gri­nag­gio per gli esperti di didat­tica di tutto il mondo, alla ricerca dell’arma segreta.

I soldi, certo, con­tano. La Fin­lan­dia inve­ste nell’istruzione circa il 7 per cento del Pil, con­tro il 4 per cento dell’Italia. Ma in ter­mini asso­luti non ci sono grandi dif­fe­renze: se si esa­mi­nano gli inve­sti­menti per stu­dente esclu­dendo l’università, entrambi i paesi sono alli­neati nei pressi della media Osce. Se si osserva l’organizzazione del sistema, invece, le distanze aumen­tano. Le scuole fin­lan­desi sono pic­cole, gestite in grande auto­no­mia ma con un clima col­la­bo­ra­tivo tra docenti, pre­sidi, alunni e fami­glie. Niente test Invalsi e mas­sima libertà sulla defi­ni­zione dei pro­grammi di studio.

Dalle cono­scenze alle competenze
Tal­volta può ricor­dare la scuola «Mary­lin Mon­roe» del film «Bianca» di Nanni Moretti. Per esem­pio la deci­sione di abban­do­nare l’insegnamento della scrit­tura a mano in favore della tastiera del com­pu­ter a molti è sem­brato un inu­tile nuo­vi­smo. Anche la nuova pro­po­sta di abo­lire le mate­rie non riscuote apprez­za­menti una­nimi nella stessa Fin­lan­dia. Ma il governo non ha fretta: del resto, ogni cam­bia­mento, sin dalla riforma del 1972 da cui è par­tito il rilan­cio fin­lan­dese, è stato attuato con estrema gra­dua­lità e costanza.

In realtà, l’innovazione di cui si sta discu­tendo oggi non è poi così rivo­lu­zio­na­ria. Per­sino in Ita­lia, i fami­ge­rati pro­grammi mini­ste­riali sono stati abo­liti già nel 2010 dalla riforma Gel­mini, in favore di più fles­si­bili «indi­ca­zioni nazio­nali» (continua sul sito del Manifesto, dove farsi un account è gratis).

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Il blackout del sole

L’eclisse di sole è una festa per grandi e pic­cini. Nes­suno vorrà per­dersi lo spet­ta­colo del sole nero a metà, che oggi, tra le nove del mat­tino e mez­zo­giorno, con il picco alle dieci e mezza, sarà visi­bile anche in Ita­lia. Come tutti gli eventi astro­no­mici rari, anche l’eclisse sta gene­rando una discreta psi­cosi dal sapore millenaristico.

In Inghil­terra, dove la luce solare calerà anche del 90 per cento in piena ora di punta, le auto­rità stanno dif­fon­dendo l’allarme tra gli auto­mo­bi­li­sti affin­ché non tol­gano gli occhi dalla strada per godersi lo show. In Fran­cia, invece, le auto­rità sani­ta­rie hanno aller­tato addi­rit­tura i pre­sidi. Di con­se­guenza, gli alunni delle scuole ele­men­tari pari­gine non potranno uscire all’aperto per­ché guar­dare il sole, sia pur dimez­zato, senza pro­te­zione può pro­vo­care danni gravi alla vista.
L’eclisse, infatti, ha preso di sor­presa (si fa per dire) i pro­dut­tori degli occhiali spe­ciali neces­sari per guar­dare il sole in sicu­rezza e gli stock sono esau­riti in tutto il con­ti­nente. Eppure, la scienza della pre­vi­sione delle eclissi dovrebbe essere assai svi­lup­pata pro­prio in Cina, dove la mag­gior parte di que­sti occhiali sono fab­bri­cati: già nel 2100 a.C. l’imperatore Zhong Khang fece deca­pi­tare gli astro­logi di corte, rei di non aver pre­vi­sto un’eclisse. Qual­cuno ne sta appro­fit­tando per incre­men­tare i suoi gua­da­gni: su Ebay, occhia­lini di car­tone da due o tre euro vanno all’asta per prezzi dieci volte supe­riori. In man­canza di lenti ade­guate, quindi, è meglio rima­nere in classe con le tap­pa­relle chiuse (in Fran­cia funzionano).

Anche gli scien­ziati sta­volta appro­fit­te­ranno dell’eccitazione popo­lare per rac­co­gliere dati scien­ti­fici (continua sul sito del Manifesto, dove l’account è gratis).

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Un doppio Aczel laico e devoto

“Per­ché la scienza non nega Dio” un laico non se lo chiede nem­meno. Se l’ipotesi divina non è neces­sa­ria, come soste­neva l’astronomo Pierre Simone Laplace, dimo­strarne la fal­sità sarà altret­tanto inu­tile. Amir Aczel, mate­ma­tico e divul­ga­tore nato a Haifa ed emi­grato negli Usa, ritiene invece che un vero laico la domanda debba por­sela eccome. Al punto da farne il titolo di un pam­phlet appena pub­bli­cato da Raf­faello Cor­tina Edi­tore nella tra­du­zione di Pier Luigi Gaspa.

Quat­tro secoli dopo Gali­leo, la sepa­ra­zione tra scienza e reli­gione non è ancora com­piuta. Colpa di preti e mul­lah? Mac­ché: secondo Aczel, i respon­sa­bili delle inva­sioni di campo sono i cosid­detti «Nuovi Atei» come il bio­logo Richard Daw­kins, il fisico Law­rence Krauss, il neu­ro­scien­ziato Sam Har­ris o il gior­na­li­sta Chri­sto­pher Hit­chens, scom­parso tre anni fa. Que­sto mani­polo di man­gia­preti sostiene che la pro­ba­bi­lità dell’esistenza di Dio sia ormai tra­scu­ra­bile. La scienza, infatti, ormai eli­mi­nato uno dopo l’altro i «misteri» della natura che gli anti­chi attri­bui­vano all’intervento divino. Ma un ricer­ca­tore, ricorda Aczel, non dovrebbe stru­men­ta­liz­zare il cal­colo delle pro­ba­bi­lità per trarne dub­bie con­clu­sioni sull’inesistenza di Dio – quello è il campo dei teo­logi. L’impeto laico dell’autore, però, si ferma qui. Il primo capi­tolo deve ancora iniziare.

A furia di con­fu­tare i «Nuovi Atei», Aczel (un nome, una piroetta) si inna­mora della tesi oppo­sta: la scienza, caso mai, for­ni­sce indizi in favore di un inter­vento divino. Come spie­gare altri­menti il Big Bang nato dal nulla cosmico o la coscienza svi­lup­pata dall’homo sapiens a un certo punto dell’evoluzione? Nes­suna teo­ria scien­ti­fica darà una spie­ga­zione razio­nale a que­sti feno­meni. La fede sì, e infatti Ein­stein nel 1913 fre­quentò la sina­goga di Praga – argo­mento non pro­prio solidissimo.

Aczel pro­pone dun­que un Dio «tap­pa­bu­chi» come ha scritto giu­sta­mente Vin­cenzo Barone sul Sole-24 Ore? Una divi­nità para­su­bor­di­nata non dovrebbe pia­cere nem­meno alla teo­lo­gia uffi­ciale, eppure Pio XII salu­tando la teo­ria del Big Bang nel 1951 non la pen­sava diver­sa­mente: «La crea­zione nel tempo, quindi; e per­ciò un Crea­tore; dun­que Dio! È que­sta la voce, ben­ché non espli­cita né com­piuta, che Noi chie­de­vamo alla scienza».

Più che sul piano dot­tri­nale, Aczel è inac­cu­rato dal punto di vista scien­ti­fico e da quello epi­ste­mo­lo­gico. La teo­ria del Big Bang, cor­ro­bo­rata da molti dati empi­rici, è prov­vi­so­ria come ogni ipo­tesi scien­ti­fica. Peral­tro ve ne sono ver­sioni diverse, cui vanno aggiunti i modelli secondo cui il tempo non sia «ini­ziato», ma sia sem­pre stato lì. La fisica, cioè, non si è arresa all’idea che la causa dell’espansione dell’universo debba rima­nere fuori dal suo rag­gio d’azione.
In secondo luogo, la scienza non somi­glia a un puzzle, i cui pezzi coprono poco a poco tutti i buchi rima­sti. Quando una tes­sera va al suo posto, altri spazi si aprono e il puzzle scien­ti­fico non si com­pleta mai. Le sco­perte e la tec­no­lo­gia, infatti, for­ni­scono rispo­ste ma gene­rano anche nuove domande. Tap­pare i buchi dun­que non basta più. Il Dio co​.co​.co. di Aczel dovrà anche sgu­sciare da un buco all’altro come un ani­male brac­cato — una vitac­cia degna del jobs act (continua sul sito del Manifesto, dove l’account è gratuito).

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