Scienziati in trincea

da Il Manifesto del 4 luglio 2015

Parafrasando Margaret Thatcher che si riferiva alla società, agli uomini e alle donne, si potrebbe affermare che non esiste una cosa chiamata “comunità scientifica”, ma solo ricercatori e ricercatrici. È questa l’immagine restituita dalla lettura di due libri pubblicati da poco e vicini anche per l’oggetto trattato. Il primo ha per titolo “Al servizio del Reich. Come la fisica vendette l’anima a Hitler” e lo ha scritto per Einaudi Philip Ball, uno dei più noti divulgatori scientifici anglosassoni, grazie alla traduzione di Daniele A. Gewurz. Il secondo è “La scienza in trincea. Gli scienziati italiani nella prima guerra mondiale”, pubblicato dalo storico della scienza Angelo Guerraggio per l’editore Raffaello Cortina. Come il lettore avrà capito, entrambi gli autori analizzano come gli scienziati se la siano cavata in due momenti storici piuttosto problematici, in cui il concetto di “comunità” è stato messo duramente alla prova. Nel farlo, ci costringono a riconsiderare alcuni luoghi comuni piuttosto radicati sulla ricerca e sui ricercatori.

Per esempio, secondo un’opinione diffusa gli scienziati sarebbero immuni dai particolarismi che agitano le esistenze di noialtri incompetenti. Eppure, nella prima metà del Novecento il nazionalismo obnubilò anche le menti più brillanti, dividendo studiosi abituati fin lì a collaborare. Cervelli visionari capaci di vertiginose rivoluzioni scientifiche, infatti, non mostrarono anticorpi efficaci contro la propaganda di governo.

Lo testimonia l’adesione dei numerosi premi Nobel al manifesto Fulda (dal nome del suo estensore), con cui 93 intellettuali tedeschi difesero l’invasione del Belgio del 1914 negando atrocità già ammesse dagli stessi militari. Spiccò per la sua assenza la firma di Albert Einstein mentre un altro gigante, Max Planck, non fece mancare la sua (poi se la rimangiò). Sulla sponda opposta, l’interventismo anti-tedesco coinvolse matematici, fisici e chimici italiani, che in pochissimi mesi seppero convertirsi all’ideologia della “guerra giusta” (concetto più vecchio di quanto si pensi, osserva Guerraggio) contro una nazione alleata. Il più influente fu il matematico Vito Volterra, uno degli studiosi italiani più noti all’estero, che rinnegò in pochi mesi il suo neutralismo e le sue collaborazioni internazionali per arruolarsi all’istituto militare di aeronautica, dove poté mettere a frutto le sue conoscenze fisiche e matematiche. Uomo fin lì moderato, Volterra usò toni da scontro di civiltà contro i tedeschi, “i nuovi barbari la cui condotta ricorda le invasioni di altri tempi”. Insieme a lui si arruolarono scienziati di ogni orientamento politico. Picone, Severi, Fubini, Garbasso diedero un importante contributo alle scienze balistiche nel campo dell’artiglieria; Pesci, Ciamician e Paternò si dedicarono ai gas asfissianti e alle loro contro-misure; Molinari e Corbino lavorarono al settore esplosivi.

Il nazionalismo conformista della prima guerra mondiale non è un caso isolato. Due decenni dopo, scrive Ball, gli eccellenti fisici tedesci furono altrettanto diligenti nell’applicare le leggi razziali ai danni di colleghi ebrei. Tra le vittime delle leggi naziste figurarono anche Fulda e Fritz Haber, il mago delle armi chimiche durante la Grande Guerra. Il decreto di espulsione di Albert Einstein dall’Accademia delle Scienze tedesca fu firmato da Max Planck, una volta ancora incapace di sottrarsi alle richieste del potere politico.

Un altro mito da sfatare riguarda il rapporto tra la ricerca e la guerra. Si è portati a credere che in un paese in conflitto rimanga poco spazio per la ricerca scientifica priva di un’immediata applicazione militare. Che scienza e guerra, cioè, non vadano d’accordo. L’esperienza delle guerre mondiali contraddice questa opinione diffusa. Gli scienziati seppero trarre vantaggio dallo stato di eccezione provocato dai conflitti e sfruttarono gli eventi per ottenere finanziamenti o dar vita a organizzazioni scientifiche nazionali. Durante il nazismo, i fisici riuscirono a sviluppare ricerche che con le armi avevano poco a che fare, convincendo i gerarchi che, grazie a quelle scoperte, la Germania avrebbe potuto vincere la guerra. I finanziamenti destinati alla Kaiser Wilhelm Gesellshaft (KWG, la principale organizzazione scientifica tedesca) salirono così da 5 a 14 milioni di marchi tra il 1932 e il 1944. Le parole di Peter Debye, direttore della sezione di Fisica della KWG durante il nazismo, sono eloquenti: “Lo slogan ufficiale del governo [tedesco] era ‘dobbiamo utilizzare la fisica per la guerra’. Noi lo rovesciammo in ‘dobbiamo sfruttare la guerra per la fisica’”.
Non fu molto diversa la strategia con cui Vito Volterra riuscì a far nascere il Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr). Dall’esperienza bellica erano già nate istituzioni come il National Research Council statunitense e il Department of Scientific and Industrial Research inglese (entrambi fondati nel 1916), e Volterra capì che il momento era propizio anche per dare alla ricerca italiana un’organizzazione nazionale. Con un paradosso solo apparente, la pace rallentò i suoi progetti, che tuttavia furono realizzati non appena la situazione politica si fece di nuovo “eccezionale”: la fondazione del Cnr fu promulgata dal governo Mussolini nel 1923, e dal 1924 Volterra ne divenne presidente. Guerrraggio conclude che tra militari e scienziati il rapporto sia circolare: “La scienza aiuta i militari a vincere le guerre, ma è vero anche il contrario. L’esperienza vissuta tra il 1914 e il 1918 ha aiutato la scienza a trovare forme organizzative più adeguate”.

Altra balla: il compito dello scienziato è far progredire la conoscenza, e solo di questo può essere giudicato responsabile; mescolare giudizi di valore ai giudizi di fatto non rende un buon servizio alla scienza. Con questo luogo comune in testa, ad esempio, i chimici italiani non videro contraddizione tra il pacifismo delle opinioni e l’impegno militare. Ettore Molinari, anarchico e membro fondatore della II Internazionale, finì per lavorare alla Sipe di Cengio, l’azienda che produceva la metà degli esplosivi usati in guerra. Nel frattempo, scriveva articoli contro un capitalismo che “per risolvere delle volgari contese economiche, non ha saputo escogitare altro sistema che quello della guerra”. Secondo Guerraggio, “la risposta suggerita dall’atteggiamento [dei chimici] è che si possono mantenere idee molto critiche nei riguardi della guerra ma queste non possono arrivare a coinvolgere l’aspetto professionale, come se i due ambiti […] fossero separati da un fossato”.

Analoga fu l’autoassoluzione di molti fisici tedeschi per la passività nei confronti del Reich: Heisenberg e camerati dopo la guerra si dichiararono “apolitici”, ritenendo che non fosse loro compito schierarsi pro o contro un regime politico. “Secondo Heisenberg, i fisici che aderirono con più entusiasmo al programma nazionalsocialista furono quelli meno competenti”, scrive Ball, dimostrando come essi tentassero di scaricare sui colleghi meno brillanti le colpe del disastro. In realtà, fu proprio questa ostentata distanza dalle cose del mondo a rendere i migliori fisici tedeschi perfettamente funzionali ai progetti nazisti: un bravo scienziato nazista non doveva necessariamente sostenere il partito, ma rinunciava al diritto di criticarlo, come invece fece Einstein. Una tesi simile fu avanzata anche nel campo statunitense per difendere l’operato dei fisici nucleari dopo Hiroshima: “è necessario che gli scienziati siano liberati dai vincoli morali o sociali”, scrisse Percy Bridgman nel 1948 sul Bulletin of the Atomic Scientists. Ball vi intravede una tendenza generale “il comportamento dei fisici tedeschi sotto il nazismo non fu un’aberrazione dovuta a circostanze estreme ma un esempio tipico di come scienza e politica interagiscono”.

L’ultimo luogo comune è proprio che quanto accadde nelle guerre mondiali sia irripetibile. In effetti molto è cambiato, ma il rapporto tra scienziati e potere politico permane stretto. Lo dimostra il fatto che sviluppo scientifico e apparato militare in molti paesi occidentali (Stati Uniti e Israele su tutti) vadano a braccetto. Anzi, la globalizzazione economica e le politiche di austerity in qualche caso hanno rafforzato questa alleanza, in quanto la sicurezza nazionale rappresenta un grimaldello per sbloccare fondi per la ricerca di base nel campo dell’informatica, della climatologia e persino della biologia. Ad esempio, sono bastate pochissime bustine di antrace per convincere il governo statunitense a finanziare il programma “Bioshield” (scudo biologico) nel 2004 per rafforzare le difese contro il bioterrorismo. I 6 miliardi di dollari investiti, in realtà, sono serviti anche a rilanciare la ricerca nel campo dei vaccini delle aziende farmaceutiche, il cui tasso di innovazione negli ultimi decenni è stato frenato da strategie imprenditoriali più attente al marketing e alla Borsa che all’efficacia terapeutica. Le astuzie raccontate da Heisenberg e Debye quindi sono state promosse a politiche industriali nazionali e il mercato si è inserito tra scienza e potere. La gara a chi è più furbo è appena iniziata.

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