“Perché la scienza non nega Dio” un laico non se lo chiede nemmeno. Se l’ipotesi divina non è necessaria, come sosteneva l’astronomo Pierre Simone Laplace, dimostrarne la falsità sarà altrettanto inutile. Amir Aczel, matematico e divulgatore nato a Haifa ed emigrato negli Usa, ritiene invece che un vero laico la domanda debba porsela eccome. Al punto da farne il titolo di un pamphlet appena pubblicato da Raffaello Cortina Editore nella traduzione di Pier Luigi Gaspa.
Quattro secoli dopo Galileo, la separazione tra scienza e religione non è ancora compiuta. Colpa di preti e mullah? Macché: secondo Aczel, i responsabili delle invasioni di campo sono i cosiddetti «Nuovi Atei» come il biologo Richard Dawkins, il fisico Lawrence Krauss, il neuroscienziato Sam Harris o il giornalista Christopher Hitchens, scomparso tre anni fa. Questo manipolo di mangiapreti sostiene che la probabilità dell’esistenza di Dio sia ormai trascurabile. La scienza, infatti, ormai eliminato uno dopo l’altro i «misteri» della natura che gli antichi attribuivano all’intervento divino. Ma un ricercatore, ricorda Aczel, non dovrebbe strumentalizzare il calcolo delle probabilità per trarne dubbie conclusioni sull’inesistenza di Dio – quello è il campo dei teologi. L’impeto laico dell’autore, però, si ferma qui. Il primo capitolo deve ancora iniziare.
A furia di confutare i «Nuovi Atei», Aczel (un nome, una piroetta) si innamora della tesi opposta: la scienza, caso mai, fornisce indizi in favore di un intervento divino. Come spiegare altrimenti il Big Bang nato dal nulla cosmico o la coscienza sviluppata dall’homo sapiens a un certo punto dell’evoluzione? Nessuna teoria scientifica darà una spiegazione razionale a questi fenomeni. La fede sì, e infatti Einstein nel 1913 frequentò la sinagoga di Praga – argomento non proprio solidissimo.
Aczel propone dunque un Dio «tappabuchi» come ha scritto giustamente Vincenzo Barone sul Sole-24 Ore? Una divinità parasubordinata non dovrebbe piacere nemmeno alla teologia ufficiale, eppure Pio XII salutando la teoria del Big Bang nel 1951 non la pensava diversamente: «La creazione nel tempo, quindi; e perciò un Creatore; dunque Dio! È questa la voce, benché non esplicita né compiuta, che Noi chiedevamo alla scienza».
Più che sul piano dottrinale, Aczel è inaccurato dal punto di vista scientifico e da quello epistemologico. La teoria del Big Bang, corroborata da molti dati empirici, è provvisoria come ogni ipotesi scientifica. Peraltro ve ne sono versioni diverse, cui vanno aggiunti i modelli secondo cui il tempo non sia «iniziato», ma sia sempre stato lì. La fisica, cioè, non si è arresa all’idea che la causa dell’espansione dell’universo debba rimanere fuori dal suo raggio d’azione.
In secondo luogo, la scienza non somiglia a un puzzle, i cui pezzi coprono poco a poco tutti i buchi rimasti. Quando una tessera va al suo posto, altri spazi si aprono e il puzzle scientifico non si completa mai. Le scoperte e la tecnologia, infatti, forniscono risposte ma generano anche nuove domande. Tappare i buchi dunque non basta più. Il Dio co.co.co. di Aczel dovrà anche sgusciare da un buco all’altro come un animale braccato — una vitaccia degna del jobs act (continua sul sito del Manifesto, dove l’account è gratuito).