Sul Manifesto del 6 settembre 2013 ho scritto un pezzo in cui azzardo un parallelo tra la bolla speculativa e quella brevettuale: entrambe mostrano o hanno mostrato una crescita drogata, lo svilupparsi di un mercato speculativo, e una crisi sostanziale dell’attività di valutazione.
L’azienda sudcoreana Samsung ha progettato un tablet, denominato Ativ Q, che potrebbe sbaragliare il mercato grazie ad alcune caratteristiche uniche: una risoluzione superiore a tutta la concorrenza, la possibilità di trasformarlo in un vero computer portatile grazie ad una tastiera scorrevole e la capacità di utilizzare simultaneamente due sistemi operativi, Windows e Android. Il lancio era previsto per questo settembre, ma improvvisamente il prodotto è sparito dai cataloghi e dal sito della società. Il motivo? L’Ativ Q viola un brevetto che la Samsung ha finora volutamente o inavvertitamente ignorato. L’umanità sopravviverà anche senza l’ennesimo tablet. Però, la vicenda mostra che la proprietà intellettuale ha un impatto sempre più forte sul mercato globale dell’innovazione, e non necessariamente in senso positivo.
Il target dell’innovazione
Il costo delle numerose vertenze aperte tra le maggiori aziende produttrici di prodotti hi tech è crescente, tanto che aziende come la Apple o Google negli ultimi anni hanno dedicato alla proprietà intellettuale risorse paragonabili e spesso superiori a quelle destinate a ricerca e sviluppo. Il numero di società coinvolte da tali controversie è più che raddoppiato tra il 2007 e il 2011.
Per spiegare questo andamento, le major puntano il dito contro i patent troll (gli «gnomi dei brevetti»). È un modo dispregiativo di indicare società che non producono nulla ma comprano brevetti oscuri e ambigui per denunciare chi li viola e ottenere lauti risarcimenti in tribunale. Un rapporto del centro studi «Patent Freedom» ha identificato nella Apple il principale obiettivo dei patent troll, con 44 denunce ricevute nel solo 2012. Ma organizzazioni come la Electronic Frontier Foundation, paladina della libertà di circolazione dell’informazione, segnalano che nel mirino dei troll spesso finiscono anche inventori indipendenti, come i programmatori che sviluppano applicazioni per smartphone.
In giugno, lo stesso Obama ha dichiarato guerra agli gnomi, annunciando un pacchetto di misure che «proteggano gli innovatori da controversie pretestuose». Frenare la moltiplicazione delle cause però non è facile. L’amministrazione democratica ci ha già provato nel 2011, quando la riforma «America Invents Act», destinata a fermare i troll, ha invece provocato un ulteriore aumento delle cause.
Viene il dubbio che i patent troll siano solo un capro espiatorio. Il loro impatto è inferiore a quanto raccontano le imprese. A fine di agosto, il Government Accountability Office (Gao), l’ente che sorveglia sulla buona gestione dei fondi pubblici americani, ha pubblicato un rapporto sulle cause dell’aumento delle controversie brevettuali. Il rapporto dimostra, numeri alla mano, che i patent troll rappresentano solo il 20% circa delle cause brevettuali tra il 2007 e il 2011, con un aumento non significativo durante questo periodo. La gran parte delle cause in realtà avviene su iniziativa delle società produttrici maggiori (Apple, Samsung etc.). Inoltre, sempre secondo il rapporto del Gao, molti patent troll agiscono in subappalto per le altre aziende che non vogliono esporsi in tribunale.
Nonostante la pessima reputazione, gli gnomi dei brevetti non rappresentano un corpo estraneo e parassitario nel mercato dell’innovazione, ma una sua componente fisiologica. Robert Berman, amministratore delegato della CopyTele, uno dei patent troll più attivi, intervistato nel mese di luglio dalla Cnn si dipinge come un difensore dei piccoli inventori, da cui compra i brevetti in cambio di una quota sui risarcimenti ottenuti: «Senza una società come CopyTele, i piccoli inventori non avrebbero alcuna possibilità di difendere le loro proprietà intellettuali contro le grandi aziende». Più o meno, è la stessa tesi con cui si giustificano i fondi di investimento, che gestendo il risparmio privato in maniera speculativa sono in grado di mettere in ginocchio le economie di interi paesi. Ma se invenzioni e azioni diventano merci sempre più «liquide», fermare speculatori e patent troll sembra un’impresa impossibile.
Peraltro, così come la finanziarizzazione ha rappresentato la terra promessa anche per il capitalismo manifatturiero, anche il commercio dei brevetti è diventato un ingrediente della politica industriale. Le università di tutto il mondo sono state incentivate a brevettare i propri risultati e a creare società «spin off» in grado di monetizzarli – il boom della Silicon Valley e delle biotecnologie a cavallo del 2000 era basato proprio sulla facile acquisizione delle proprietà intellettuali di aziende incapaci di realizzare produzioni su larga scala. Viste le analogie, il timore è che la bolla brevettuale scoppi, bloccando settori strategici dell’economia globale.
Le analogie, però, forniscono altri suggerimenti utili. La crisi finanziaria ha evidenziato il peso decisivo delle agenzie di valutazione, quelle che spacciavano per sicure le azioni della Lehman Brothers il giorno prima della bancarotta. Anche nel caso dei brevetti, il ruolo dei valutatori è cruciale. Sono infatti gli esaminatori degli uffici brevetti a decidere se un’idea sia originale, innovativa ed utile abbastanza da meritare una tutela proprietaria.
Per molti economisti, ciò che ha moltiplicato le cause brevettuali è stata l’eccessiva facilità con cui i brevetti vengono rilasciati. Se un brevetto riguarda un’invenzione generica o non abbastanza innovativa, il rischio che un’altra tecnologia ricada nel suo campo di applicazione è elevat, aumentando la probabilità che da quel brevetto nasca una causa legale. Il numero di controversie è inoltre legato al tempo speso per valutare le invenzioni: oggi, un esaminatore negli Usa dedica in media solo venti ore a ciascuna richiesta di brevetto. Ai governi converrebbe dunque investire maggiori risorse negli uffici brevetti, permettendo così un esame più attento delle domande: il risparmio generato dal minor numero di cause sarebbe superiore all’aumento della spesa.
Un settore a rischio
Il settore tecnologico più a rischio è quello del software, che riguarda circa due terzi delle citazioni in giudizio. In questo ambito, ottenere un brevetto che copra molte tecnologie destinate all’uso comune è facile, complice un linguaggio tecnico che si espone a formulazioni ambigue. Ed è questo il settore in cui alcuni paesi hanno deciso di intervenire sul piano legislativo. Il 28 agosto, ad esempio, la Nuova Zelanda ha introdotto una riforma che limita, senza vietarla del tutto, la brevettabilità del software. Il principale ostacolo a mosse di questo tipo rimane tuttora il famigerato accordo Trips siglato dall’Organizzazione Mondiale del Commercio nell’ormai lontano 1994, che impegna a tutelare con il brevetto praticamente ogni tipo di invenzione.