Adam Arvidsson e Alessandro Delfanti, “Introduzione ai media digitali”, il Mulino, 2013.
La manualistica universitaria sui media non gode in generale di grande fama. Aprendo un libro intitolato “Introduzione ai media digitali”, ci si aspetterebbe di leggere spiegazioni su cosa sia un blog o un social network, e l’ennesima, ammirata analisi del fenomeno nuovissimo del web-due-punto-zero. Stiracchiate abbastanza da riuscire a riempirci centocinquanta pagine. Il libro di Arvidsson e Delfanti appena pubblicato dal il Mulino, invece, è di tutt’altra specie.
I “media digitali” del titolo sono presi sul serio, proprio come mezzi che trasmettono informazione in formato digitale. Dispositivi che fanno questo lavoro non si trovano solo in rete o nell’iPhone: praticamente ogni macchina con cui interagiamo contiene sensori e processori che producono, elaborano e scambiano dati, dalla lavatrice al treno dei pendolari. Perciò, la trasformazione che ci ha investito riempiendoci l’esistenza di “media digitali” non riguarda solo la classica cittadella dell’informazione o della comunicazione. Ha investito la produzione di beni materiali e intangibili, il settore terziario quanto quello industriale, la guerra e il divertimento. È del tutto azzeccata, dunque, la scelta di inserire blog e social network (perché il tema non viene eluso) in un contesto più ampio.
Nei sei capitoli del libro, si riassumono per un pubblico non esperto i modelli teorici con cui oggi si analizza la società in rete (grande spazio ottengono le tesi del sociologo spagnolo Manuel Castells e dell’economista statunitense Yochai Benkler) esaminando la questione da diversi punti di vista. Il formato digitale ha investito non solo l’informazione, ma anche la produzione in senso più ampio, e dunque il lavoro. La società diventa uno “spazio dei flussi dove circolano saperi, competenze, denaro e persone”, scrivono gli autori citando Castells. La partecipazione o l’esclusione dai flussi segmenta la società più della contraddizione tra capitale e lavoro. Il “nuovo spirito del capitalismo” si fonda sulla flessibilità delle menti e delle gerarchie: se al lavoratore del capitalismo fordista era chiesto essere il più stupido possibile, per sacrificare la sua intelligenza alla disciplina della fabbrica, il nuovo attore della società dell’informazione deve essere intelligentissimo, e mettere al lavoro la sua stessa creatività.
A cascata, mutano anche le forme del conflitto: nel paradigma digitale emergono nuove modalità di partecipazione, il cui impatto reale è ancora incerto – si pensi al vivace dibattito intorno alle twitter revolution della primavera araba. Mentre i tradizionali spazi pubblici organizzati intorno allo Stato evaporano, sta sorgendo nelle community digitali un nuovo senso civico, e un nuovo mercato di prossimità, il cui capitale circolante è dato dalla reputazione scambiata tra pari che condividono istanze, desideri, visioni del mondo: una sorta di filiera corta i cui membri, fisicamente, possono invece trovarsi a migliaia di chilometri di distanza.
Delfanti e Arvidsson non cedono affatto alla visione tecno-utopistica che spesso circonda questo tema, e anzi evidenziano come analisi apparentemente datate, come quella ultracentenaria di George Simmel, siano tuttora attuali per il sociologo che voglia studiare l’interazione sociale mediata dalle reti digitali. E non nascondono che, accanto a visioni entusiastiche come quella dello statunitense Richard Florida (il teorico della “classe creativa”), si siano sviluppate anche letture più critiche, secondo le quali i “creativi” vengono progressivamente penalizzati dalla nuova economia in termini di tutele e diritti. Per spiegare Facebook, dunque, occorre raccontare anche qualcosa dei sistemi pensionistici. Che Delfanti e Arvidsson ci siano riusciti in sole centocinquanta pagine utili e accessibili, sembra quasi un miracolo.
(pubblicato su Doppiozero)