Perché Gould ce l’aveva con Dawkins, Wilson, Rifkin e Capra

La recensione di “Un riccio nella tempesta” di S.J. Gould (Codice, 2013), pubblicata sul Manifesto del 21 agosto 2013.

Al biologo Richard Dawkins bastano 140 caratteri per finire sui giornali. Colpa di un tweet di inizio agosto, in cui l’autore de Il gene egoista riportava una statistica apparentemente neutra: il Trinity College di Cambridge ha ricevuto più premi Nobel di tutti i musulmani messi insieme. Su Dawkins sono piovute le accuse di razzismo dai social network, dalla stampa di sinistra, come il New Statesman, e persino dal più conservatore Daily Telegraph.

Tanta indignazione non si spiega solo con un tweet. Dawkins è anche un apprezzato divulgatore delle scienze della vita e un fervido ateo militante, in quanto tale molto amato anche dal pubblico di sinistra. Ma è anche un alfiere della teoria del «gene egoista», secondo cui il Dna influenza in maniera determinante il comportamento individuale. Perciò, quando Dawkins sottolinea una differenza culturale tra gruppi sociali diversi (che si potrebbe spiegare semplicemente con le differenze di reddito, nel caso del Trinity College e dell’Islam) per molti sta riesumando la teoria delle razze, in un modo più subdolo e dunque più pericoloso.

C’è chi, come Gilda Stanzani su Facebook, ha rimpianto l’assenza di un controcanto altrettanto autorevole, quello del paleontologo Stephen Jay Gould che, prima di morire prematuramente nel 2002, aveva duellato in mille occasioni con Dawkins per difendere l’idea che non tutto sia scritto nel nostro Dna. Gould non poté iscriversi a Facebook né twittare, Per rimediare, la casa editrice torinese Codice ha appena (ri)pubblicato Un riccio nella tempesta. Saggi su libri e idee, un’antologia delle recensioni che Gould scrisse per la New York Review of Books negli anni ottanta. Sono diciotto articoli per lo più diretti a smontare le interpretazioni socialmente pericolose della biologia dell’evoluzione e dalla genetica. E, critica dopo critica, il libro rappresenta un’esposizione divulgativa e sintetica di tutti i temi che Gould affrontò non solo nell’attività di ricerca, ma anche nella sua copiosa produzione diretta al grande pubblico.

Il principale avversario di Gould si chiama «sociobiologia»: è la corrente di pensiero che tenta di spiegare con la teoria dell’ereditarietà non solo le differenze biologiche tra gli individui di una specie (il colore della pelle o il gruppo sanguigno, per esempio) ma anche quelle psicologiche, e, salendo di complessità, l’evoluzione dell’organizzazione sociale e della cultura. Dopotutto, sostenevano Charles Lumsden e Edward Wilson ne Il fuoco di Prometeo, una sorta di manifesto della sociobiologia pubblicato nel 1983, «la mente e la cultura sono fenomeni viventi, come qualsiasi altro: nascono dalla genetica». Secondo i due biologi, geni e cultura si trasmettono con meccanismi analoghi e si rafforzano a vicenda: dunque, popolazioni, comunità o caste che si differenziano per usi e costumi devono distinguersi anche dal punto di vista del corredo genetico. Se fosse vero, con le leggi della genetica potremo un giorno spiegare anche le dinamiche sociali. Ma l’evoluzione dei geni e quella delle culture si svolgono su scale temporali assai diverse (i geni cambiano più lentamente), osserva Gould: «la storia più che la genetica deve rimanere il terreno in cui svolgere la nostra ricerca per capire diversità e mutamento culturale».

Altrettanto sferzante è la critica contro l’uso dei test di intelligenza, altra supposta «prova» della diversità intellettiva tra individui di «razze» diverse (i neri, secondo le ricerche svolte all’inizio del secolo da Cyril Burt, possiedono un quoziente intellettivo mediamente inferiore, 85 contro 100, rispetto ai bianchi). Ma le argomentazioni che portarono a teorizzare l’esistenza di un quoziente intellettivo ereditabile erano basate su dati empirici falsificati e su analisi matematiche arbitrarie. Gould, militante attivo nei movimenti contro le discriminazioni razziali, mette in fila le sue critiche nella recensione a Bias in mental testing di A. R. Jensen, il sostenitore dei tagli all’istruzione differenziale destinata al recupero dei bambini neri.

Come mostrano questi due esempi, Gould non muove dalle conseguenze indesiderate di una teoria scientifica (i tagli alle scuole di recupero, ad esempio), ma dalle sue premesse scientifiche, come le manipolazioni di Burt. Questo rigore ha fatto di Gould un intellettuale molto rispettato e amato anche da un pubblico non accademico. Ma allo stesso tempo, gli ha impedito ogni facile conformismo. Quando sarebbe stato facile interpretare il ruolo dell’intellettuale «no global» a buon mercato, Gould non esitava a criticare autori molto ascoltati a sinistra.

Nel 1984, ad esempio, Jeremy Rifkin pubblicò Algeny, un fortunato pamphlet che lanciava l’allarme contro le teorie di Darwin e le nascenti (siamo nel 1984) biotecnologie. Gould fu uno dei principali innovatori della teoria della selezione naturale, dimostrando che l’evoluzione non procede gradualmente ma per «salti» alternati da lunghi periodi di stasi. Inoltre, condivideva molte delle preoccupazioni per i rischi connessi alla possibilità di ricombinare a piacimento i geni degli organismi. Tuttavia Rifkin adottava un punto di vista anti-scientista (utilizzando persino argomenti creazionistici) secondo cui il darwinismo e la biologia molecolare erano «semplici riflessi di un’ideologia sociale» funzionale al capitalismo nelle sue varie fasi. La legittima lotta alle strategie di imprese come la Monsanto non poteva giustificare simili rozzezze intellettuali, come puntualizza Gould nel recensire Algeny.

Nel mirino finì anche il fisico Fritjof Capra, che negli anni ’80 godette di un discreto credito nel pubblico new age grazie a saggi come Il Tao della fisica o Il punto di svolta, basati sul parallelismo tra la scienza moderna e la tradizione filosofica orientale olistica. Gould e Capra si opponevano entrambi al «riduzionismo», la tendenza ad analizzare i sistemi complessi isolandone gli elementi costitutivi. Capra, però, vedeva nel superamento del riduzionismo la via d’accesso ad una visione armonica della natura e della società. La semplificazione non va perdonata nemmeno a un supposto alleato: un nuovo paradigma scientifico «non produrrà un Nirvana di cooperazione benefica per tutti», scrive Gould recensendo Il punto di svolta, perché i diversi livelli di interpretazione della realtà possono presentare contraddizioni: ciò che va bene per il singolo individuo può risultare dannoso al livello interpretativo superiore, quello delle specie.

Le piume del pavone avvantaggiano il maschio nell’accoppiamento ma costringono la specie a specializzarsi, rendendola vulnerabile ad eventuali mutamenti ambientali. Gould ne trasse una lezione di vita: «Ho i miei dubbi sulla possibilità di sottrarsi sempre al sacrificio, alla lotta e al compromesso». La natura ammette i salti, ma le larghe intese proprio no.

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