Brevetti, trent’anni buttati

Qualche giorno fa, il Parlamento europeo ha approvato la creazione di una Corte Europea dei brevetti, in cui convergeranno tutti i ricorsi legali presentati per contestare la validità di un brevetto o la sua violazione da parte di un’imitazione illecita. Finora, infatti, anche se esisteva una procedura unificata per l’approvazione di un brevetto, la sua difesa legale andava fatta Stato per Stato. L’Italia protesta, perché d’ora in poi le domande di brevetto dovranno essere presentate solo in inglese, francese o tedesco. Ma non è questo il motivo principale per opporsi al Brevetto europeo.

La decisione del Parlamento di Strasburgo assomiglia a quella assunta dal Congresso americano nel 1982, quando fu istituita la Corte federale di appello per giudicare le vertenze brevettuali, che prima andavano discusse nei singoli Stati dell’Unione. Da allora, il numero di brevetti richiesti negli Usa è aumentato di quattro volte. L’ufficio brevetti statunitense è stato sommerso dalle richieste, che sono state valutate affrettatamente e hanno condotto ad approvazioni facili, che a loro volta hanno incentivato ulteriormente le aziende a richiedere brevetti (oggi ad ogni brevetto sono dedicate solo venti ore di esame, in cui valutarne originalità, inventività, sufficiente descrizione e utilità pratica). È un circolo vizioso che sposta il momento della valutazione della validità dei brevetti dagli uffici brevetti ai tribunali, dove si scontrano studi legali da 500 dollari l’ora che valutano per mesi, non poche ore, se un brevetto andava assegnato o se un prodotto è davvero una copia di un altro. E in tribunale non vince il migliore, ma chi ha più soldi per gli avvocati. Creare un tribunale più efficiente senza rafforzare l’ufficio brevetti è servito soprattutto a questo. Il risultato è la guerra dei brevetti in corso oggi, che fa spendere a Google e Apple più soldi per i brevetti che per gli investimenti in ricerca e sviluppo.

Nonostante i risultati, è la strada che sta prendendo anche l’Europa, trent’anni dopo. L’Italietta che si è opposta per ragioni degne di una pro-loco padana ha perso un’occasione: non per adeguarsi passivamente ad un’Europa sempre più miope, ma per opporsi con le ragioni di un dibattito internazionale di ampio respiro, un ripensamento sulla proprietà intellettuale che un giorno giungerà anche da noi. Ovviamente, con trent’anni di ritardo.

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