Eseguendo la sentenza

Alberto “Fagiolino” Funaro, a cui ieri è toccata la condanna più pesante, non ha iniziato oggi la sua detenzione per i fatti di Genova. In carcere, in custodia cautelare, ci ha passato molti mesi sin dal 2002. In quel periodo scrisse una lettera aperta che oggi dovremmo rileggere tutti. Rimproverava al movimento di aver dimenticato chi, come lui, era diventato un capro espiatorio; di aver dimenticato l’unità del movimento, sbandierata ma mai praticata. “Noi, no-global di serie B”, diceva di sé e dei 26 che allora erano accusati di devastazione e saccheggio.
A Genova non c’ero, nel 2001. Ma l’ho vista impressa nella retina di tante persone. Il G8 è stato un grande flash negli occhi di una generazione. Una fotografia collettiva in cui molti di noi sono stati sorpresi a bocca aperta, occhi sgranati e mani a mezz’aria. Per questo, forse, sono stati i fumetti di Zerocalcare a rappresentarne meglio il senso. Meglio dei milioni di foto e fotogrammi che dal luglio 2001 tornano a inondarci ogni volta che esce un film, o una sentenza. Così tante immagini, invece di unire, hanno frantumato quello sguardo abbacinato dal lampo al magnesio. Ognuno si è rimontato i fotogrammi come ha voluto: qualcuno si è fissato sugli infiltrati, altri sui clown e le sambaband, altri ancora sulle teste spaccate in strada o sui corpi violentati usciti in barella dalla Diaz. Ognuno si è costruito la sua Genova coi tasselli presi dal mucchio, come si fa con gli specchi rotti sperando di schivare la sfiga. Molti, alla fine, quello specchio lo hanno attraversato: si sono messi Genova alle spalle e non ne hanno voluto sentir parlare. Così Fagiolino, come gli altri di serie B, è diventato un black bloc, forse un infiltrato, o un balordo, magari un ultras del calcio. Uno che a Genova era meglio che non ci fosse. Sicuramente, non uno di quelli da portare sulle magliette.
Ma è inutile girarci intorno: Alberto non ce l’aveva coi boy scout spaventati. Scriveva a chi, sulla retorica del Movimento dei movimenti, ha costruito carriere politiche nei palazzi e nei centri sociali. La maggior parte di queste 20, forse 50 persone, in questi giorni si sono viste nelle piazze a gridare “libertà!”. Ma c’erano solo perché le orecchie certe volte fischiano così forte che non si sopportano, e 10×100 di orecchie ne ha fatte fischiare più del previsto.

La lettera di Alberto dice: io sto qui a pagare per tutti. Voi, lì fuori, fate i vostri distinguo, sperando che il meccanismo in cui sono finito si fermi da solo per la clemenza dei carcerieri. Le sue parole ricordano quelle scritte da un altro prigioniero tradito dai suoi. Un altro che, per giorni e giorni (alla fine furono cinquantacinque), ha cercato di urlare da dentro una cella che il ticchettio stava proseguendo, che quelli facevano sul serio, che alla fine la sentenza sarebbe giunta a esecuzione. Alzi la mano chi, leggendo la lettera di Alberto, non ha pensato “È normale che scriva così, Fagiolino: cos’altro può scrivere un carcerato?” È ciò che pensava Andreotti, sappiatelo.

No, non sono così stronzo da paragonare Moro a Fagiolino (grattate, Albe’): quello che state guardando è il dito. Sto paragonando noi, il Movimento dei movimenti, alla Democrazia Cristiana. Forse, rimanere fermi per undici anni è stata la scelta più opportuna. Forse, muoversì di più per Alberto e gli altri non avrebbe risparmiato loro il carcere, così come una trattativa con le Br non avrebbe necessariamente salvato Moro. Ma la storia sarebbe stata diversissima lo stesso. Andreotti oggi non è quello che non è riuscito a salvare Moro: è soprattutto quello che non ha voluto salvarlo, vero o falso che sia. Se avesse mosso un dito, anche per finta, le carte in tavola sarebbero cambiate di molto, Moro vivo o Moro morto. Perché ogni tanto non è il risultato quello che conta, ma come ci si arriva. E ieri la “linea della fermezza” che ha perso è la nostra. Volevamo proprio morire democristiani, evidentemente.

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