La Corte indiana ha dato torto alla Novartis ritenendo che il Glivec, questo il nome del farmaco basato su una nuova conformazione di una molecola già nota, l’imatinib mesilato, non rappresenti un’innovazione sostanziale. Inoltre, ha motivato la sentenza con la necessità di salvaguardare l’accesso alle cure per la propria popolazione: la società indiana Cipla, infatti, già commercializza un farmaco equivalente al Glivec che abbassa il costo mensile della chemioterapia da 2600 (il prezzo fissato dalla Novartis) a 175 dollari. Nemmeno l’iniziativa della Novartis di regalare il farmaco al 95% dei pazienti indiani è bastata per convincere i giudici.
Cause come questa si susseguono dagli anni Novanta ad oggi: la prima, e la più celebre di tutte, contrappose un consorzio di quaranta multinazionali al governo sudafricano, denunciato dalle corporation presso l’Omc: la riforma della sanità appena approvata incoraggiava l’acquisto di farmaci sul mercato parallelo per abbassare i costi delle terapie anti-Aids, 1000 dollari al mese in un Paese con un reddito medio annuo di 2600 dollari e una popolazione sieropositiva pari al 20% del totale. La mobilitazione dell’opinione pubblica mondiale, l’allora «popolo di Seattle», nel 2001 costrinse le società farmaceutiche a ritirare la denuncia.L’onda sudafricana
Dal Sudafrica all’India, il dibattito sull’impatto del brevetto sull’accesso alle cure nei Paesi poveri ha accompagnato l’evoluzione recente della normativa internazionale sulla proprietà intellettuale. Fino ad una ventina di anni fa, non esistevano standard internazionali e ogni Paese poteva adottare una strategia autonoma sulla brevettabilità dei farmaci. Persino Paesi sviluppati, con una lunga tradizione in campo brevettuale, hanno riconosciuto i brevetti sui farmaci in tempi relativamente recenti: la Germania (seppure ospiti aziende farmaceutiche come la Bayer) dal 1967, la Svizzera (sede di Novartis e Roche) dal 1977, Francia e Italia dal 1978 – oltre cinquecento anni dopo la prima legge sui brevetti della storia, quella della Serenissima Repubblica di Venezia.
A mettere ordine, se così si può dire, ci hanno pensato una lunga serie di accordi commerciali bilaterali e regionali e, infine, l’«Accordo sugli aspetti commerciali dei diritti di proprietà intellettuale» (divenuto noto con la sigla Trips) del 1994, con cui l’Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto) ha stabilito che i farmaci devono rimanere brevettati per vent’anni come qualsiasi altro prodotto. La sola deroga per i Paesi in via di sviluppo riguardava la possibilità di concedere «licenze obbligatorie», cioè di autorizzare aziende nazionali a produrre un farmaco che altrimenti il detentore del brevetto avrebbe fornito a costi non sostenibili. Nel 2003, sull’onda della vertenza sudafricana, è stata autorizzata la concessione di licenze obbligatorie anche allo scopo di esportare farmaci, visto che i Paesi più poveri spesso non hanno le infrastrutture industriali necessarie a produrre in proprio i medicinali, anche dietro licenza obbligatoria.
Sono passati quasi vent’anni dai Trips, dunque, ma dal Sudafrica di ieri all’India di oggi non sembra cambiato granché. Ma è un’impressione errata.
Il potere degli emergenti
La controversia sudafricana, come le numerose altre che coinvolsero i Paesi in via di sviluppo in quegli anni, si svolgeva su un piano essenzialmente umanitario. Non metteva in discussione l’organizzazione della filiera farmaceutica, ma solo la capacità del mercato di soddisfare la crescente domanda di salute proveniente dal Sud del mondo. In anni recenti, anche economisti accademici hanno dimostrato che non c’è nulla di strano se un farmaco viene venduto ad un prezzo più alto in un Paese povero con forti disuguaglianze che in uno ricco e dotato di un sistema di welfare: è una logica conseguenza, quando si affida al mercato la distribuzione dei farmaci brevettati, una merce particolarissima sia dal lato dell’offerta (monopolizzata da una sola azienda) che della domanda (formata da ogni malato che se lo possa permettere).
Lo scenario è cambiato da molti punti di vista. Innanzitutto, a differenza del Sudafrica, l’India ospita una fiorente industria dei farmaci generici. La sentenza della Corte Suprema di New Dehli, quindi, punta a difendere le imprese farmaceutiche locali, che scavalcando i brevetti possono competere abbassando i prezzi dei farmaci. Dunque, alle corporation non resta che incassare il colpo e adattarsi alle nuove regole, tanto che giganti come la stessa Novartis o la GlaxoSmithKline si sono già insediate sul mercato indiano con società controllate che competono sul mercato dei generici con quelle locali.
Secondo le stime degli analisti finanziari, il business farmaceutico indiano, oggi il quattordicesimo al mondo, dovrebbe salire all’ottavo posto entro il 2016. Nel 2020, in India si venderanno farmaci per 49 miliardi di dollari, rispetto ai 13 attuali. Solo i profitti dei paesi emergenti potranno compensare lo stagnante giro d’affari dei paesi sviluppati, alle prese con difficoltà economiche che limitano la spesa sanitaria un po’ ovunque. Impensabile, per Novartis & Co., tirarsene fuori.
Il mutato scenario internazionale, per altro, sta inducendo anche Paesi molto più industrializzati dell’India a perseguire strategie simili. L’Unione Europea, l’Australia, il Canada e l’Argentina hanno introdotto, o sono intenzionate a farlo, norme restrittive per la concessione dei brevetti sui farmaci. L’obiettivo è limitare la durata dei brevetti, che oggi viene prolungata con diversi stratagemmi. Dopo i vent’anni fissati dal Wto, infatti, molti Paesi concedono estensioni in ragione degli anni persi tra il rilascio del brevetto e l’ottenimento delle autorizzazioni sanitarie per la commercializzazione del farmaco. Inoltre, le società farmaceutiche ricorrono frequentemente al cosiddetto evergreening: quando un brevetto su un farmaco sta per scadere, basta modificarne un aspetto bio-chimico irrilevante per richiederne un altro (come ha fatto la Novartis secondo la Corte Suprema).
Senza ricerca e sviluppo
Le imprese sperano così di rilanciare, in ciascuno di questi Paesi, un’industria farmaceutica locale dei farmaci generici, che ha il pregio di abbassare i costi per i sistemi sanitari nazionali colpiti dall’austerity ed è in grado di competere sul piano internazionale, visto che non necessita dei massicci investimenti richiesti per sviluppare farmaci innovativi. Il mercato dei farmaci generici, d’altronde, è in piena espansione anche nei paesi sviluppati, anche se c’è poco da rallegrarsene.
Sullo sfondo di questi mutamenti internazionali, infatti, c’è una crisi di produttività della ricerca applicata in campo farmaceutico. Tradurre in nuove medicine le scoperte della ricerca di base appare più difficile di prima. L’impasse non riguarda solo le imprese, ma investe anche la comunità scientifica accademica. L’allarme è stato lanciato sulla rivista Nature nei mesi scorsi: prima Glenn Begley, direttore della ricerca sul cancro presso la società farmaceutica americana Amgen, poi i ricercatori della tedesca Bayer, hanno dichiarato che i risultati della ricerca di base pubblicati in letteratura raramente vengono confermati, una volta riprodotti nei laboratori industriali allo scopo di sviluppare nuovi farmaci. Il risultato è che le società farmaceutiche inventano sempre meno farmaci, e non riescono a rimpiazzare i brevetti in scadenza: negli ultimi due anni sono scaduti i brevetti di sei farmaci sui dieci più venduti negli Usa. E nuove esigenze sanitarie globali si affacciano, come la crescente resistenza dei batteri agli antibiotici.
Si sono dunque spezzati tutti gli anelli di una catena che sembrava funzionare alla perfezione, trasformando le scoperte dei ricercatori universitari in farmaci sviluppati dalle aziende e infine trasferendole ai pazienti attraverso i meccanismi del mercato. Ciascuno di questi ingranaggi oggi sembra girare a vuoto secondo logiche autoreferenziali. È un risultato davvero notevole, se si pensa a quanta pressione è stata esercitata negli ultimi vent’anni perché la ricerca di base producesse risultati «spendibili» sul mercato.