Diario dell’invasione

Vittorio Arrigoni, da ilmanifesto.it:

Mentre scrivo i carri armati israeliani sono entrati nella «Striscia».
La giornata è iniziata allo stesso modo in cui è finita quella che l’ha
preceduta, con la terra che continua a tremare sotto i nostri piedi, il
cielo e il mare, senza sosta alcuna, a tremare sulle nostre teste, sui
destini di un milione e mezzo di persone che sono passate dalla
tragedia di un assedio, alla catastrofe di bombardamenti che fanno dei
civili il loro bersaglio predestinato. Il posto è avvolto dalle fiamme,
cannonate dal mare e bombe dal cielo per tutta la mattina. Le stesse
imbarcazioni di pescatori che scortavamo fino a quale giorno fa in alto
mare, ben oltre le sei miglia imposte da Israele come assedio illegale
criminoso, le vedo ora ridotte a tizzoni ardenti. Se i pompieri
tentassero di domare l’incendio, finirebbero bersagliati dalle
mitragliatrici degli F16, è già successo ieri. Dopo questa massiccia
offensiva, finito il conteggio dei morti, se mai sarà possibile, si
dovrà ricostruire una città sopra un deserto di macerie. Livni dichiara
al mondo che non esiste un’emergenza umanitaria a Gaza: evidentemente
il negazionismo non va di moda solo dalle parti di Ahmadinejad. I
palestinesi su una cosa sono d’accordo con la Livni, ex serial killer
al soldo del Mossad, (come mi dice Joseph, autista di ambulanze): più
beni alimentari stanno davvero filtrando all’interno della striscia,
semplicemente perché a dicembre non è passato pressoché nulla, oltre la
cortina di filo spinato teso da Israele. Ma che senso realmente ha
servire pane appena sfornato all’interno di un cimitero?

L’emergenza è
fermare subito le bombe, prima ancora dei rifornimenti di viveri. I
cadaveri non mangiano, vanno solo a concimare la terra, che qui a Gaza
non è mai stata così fertile di decomposizione. I corpi smembrati dei
bimbi negli obitori invece dovrebbero nutrire i sensi di colpa, negli
indifferenti, verso chi avrebbe potuto fare qualche cosa. Le immagini
di un Obama sorridente che gioca a golf sono passate su tutte le
televisioni satellitari arabe, ma da queste parti nessuno si illude che
basti il pigmento della pelle a marcare radicalmente la politica estera
statunitense.
Ieri (venerdì,
ndr) Israele ha aperto il valico di Herez per
far evacuare tutti gli stranieri presenti a Gaza. Noi, internazionali
della Ism, siamo gli unici a essere rimasti. Abbiamo risposto oggi
(ieri,
ndr) tramite una conferenza stampa al governo
israeliano, illustrando le motivazioni che ci costringono a non
muoverci da dove ci troviamo. Ci ripugna che i valichi vengano aperti
per evacuare cittadini stranieri, gli unici possibili testimoni di
questo massacro, e non si aprano in direzione inversa per far entrare i
molti dottori e infermieri stranieri che sono pronti a venire a portare
assistenza ai loro eroici colleghi palestinesi. Non ce ne andiamo
perché riteniamo essenziale la nostra presenza come testimoni oculari
dei crimini contro l’inerme popolazione civile ora per ora, minuto per
minuto. Siamo a 445 morti, più di 2.300 feriti, decine i dispersi.
Settantatré, al momento in cui scrivo, i minori maciullati da bombe. Al
momento Israele conta tre vittime in tutto. Non siamo fuggiti come ci
hanno consigliato i nostri consolati perché siamo ben consci che il
nostro apporto sulle ambulanze come scudi umani nel dare prima
assistenza ai soccorsi potrebbe rivelarsi determinante per salvare
vite. Anche ieri un’ambulanza è stata colpita a Gaza City, il giorno
prima due dottori del campo profughi di Jabalia erano morti colpiti in
pieno da un missile sparato da un Apache. Personalmente, non mi muovo
da qui perché sono gli amici ad avermi pregato di non abbandonarli. Gli
amici ancora vivi, ma anche quelli morti, che come fantasmi popolano le
mie notti insonni. I loro volti diafani ancora mi sorridono.
Ore 19.33, ospedale della Mezza Luna Rossa, Jabalia. Mentre ero in
collegamento telefonico con la folla in protesta in piazza a Milano,
due bombe sono cadute dinanzi all’ospedale. I vetri della facciata sono
andati in pezzi, le ambulanze per puro caso non sono rimaste
danneggiate. I bombardamenti si sono fatti ancora più intensi e
massicci nelle ultime ore, la moschea di Ibrahim Maqadme, qui vicino, è
appena crollata sotto le bombe: è la decima in una settimana. Undici
vittime per ora, una cinquantina i feriti. Un’anziana palestinese
incontrata per strada questo pomeriggio mi ha chiesto se Israele pensa
di essere nel medioevo, e non nel 2009, per continuare a colpire con
precisione le moschee come se fosse concentrato in una personale guerra
santa contro i luoghi sacri dell’islam a Gaza.
Ancora un’altra pioggia di bombe a Jabalia, e alla fine sono entrati. I
cingoli di carri armati che da giorni stazionavano al confine, come
mezzi meccanici a digiuno affamati di corpi umani, stanno trovando la
loro tragica soddisfazione. Sono entrati in un’area a nord-ovest di
Gaza e stanno spianando case metro per metro.

Seppelliscono il passato
e il futuro, famiglie intere, una popolazione che scacciata dalle
proprie legittime terre non aveva trovato altro rifugio che una baracca
n un campo profughi.
Siamo corsi qui a Jabaila dopo la terribile minaccia israeliana piovuta
dal cielo venerdì sera. Centinaia e centinaia di volantini lanciati
dagli aerei intimavano l’evacuazione generale del campo profughi.
Minaccia che si sta dimostrando purtroppo reale. Alcuni, i più
fortunati, sono scappati all’istante, portandosi via i pochi beni di
valore, un televisore, un lettore dvd, i pochi ricordi della vita che
era in una Palestina perduta una sessantina di anni fa. La maggioranza
non ha trovato alcun posto dove fuggire. Affronteranno quei cingoli
affamati delle loro vite con l‘unica arma che hanno a disposizione, la
dignità di saper morire a testa alta.
Io e i miei compagni siamo coscienti degli enormi rischi a cui andiamo
incontro, questa notte più delle altre; ma siamo certo più a nostro
agio qui nel centro dell’inferno di Gaza, che agiati in paradisi
metropolitani europei o americani, che festeggiando il nuovo anno non
hanno capito quanto in realtà siano causa e complicità di tutte queste
morti di civili innocenti.

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