Non basterà nemmeno Google

Ieri Nero e Boing Boing, parlavano di Google Patents, il motore di ricerca dei brevetti americani. Quando si ottiene un brevetto, si deposita una descrizione dell'invenzione all'ufficio apposito. Le descrizioni dei brevetti sono simili ad articoli scientifici. O almeno dovrebbero esserlo, perché dovrebbero mettere chi li legge in condizione di riprodurre l'invenzione. Quindi, Google Patents dovrebbe assomigliare all'ottimo Google Scholar, che fa navigare tra i paper accademici bypassando, in gran parte, quel guazzabuglio di copyright e formati che è la giungla delle riviste scientifiche (una giungla di cartapesta, perché in realtà il 99% dell'editoria scientifica è controllata da soli 3 gruppi editoriali). Per altro, mentre i brevetti nascono proprio per divulgare le invenzioni e scoraggiare l'uso del segreto commerciale (la ricetta della Coca-Cola non è brevettata, ma è segreta), spesso l'accesso ai database brevettuali è a pagamento (e sui database c'è il copyright…). Insomma, Google potrebbe permettere di muoversi un po' meglio in questi database.

Però, l'arte dei legali brevettuali è proprio quella di scrivere tutto per non dire niente. Si scrive nella maniera più vaga possibile per coprire il campo più ampio possibile, e si cerca di non far capire cosa si è brevettato davvero. Cioè: la descrizione di solito non basta a capire il vero contenuto dell'invenzione. Se ne accorsero i paesi vincitori della seconda guerra mondiale, che entrarono in possesso dei brevetti dell'industria chimica tedesca (allora leader): dovettero tornare 10 anni dopo a prendersi anche i chimici, cioè il know-how, perché solo loro sapevano davvero qual era il contenuto dei brevetti. Quindi: ben venga Google, ma il problema della diffusione dell'informazione attraverso il brevetto rimane comunque limitato a priori.

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