(pubblicato sul Manifesto di mercoledì 7 ottobre 2015)
Il giapponese Takaaki Kajita e il canadese Arthur B. McDonald si sono aggiudicati il premio Nobel per la fisica del 2015 per le loro scoperte sui neutrini “mutanti”. Tra gli anni ’90 e l’inizio del millennio, Kajita e McDonald sono riusciti a dimostrare sperimentalmente (e in maniera indipendente) che tali particelle cambiano aspetto mentre attraversano il cosmo a velocità prossima a quella della luce. Dal 1988, è il quarto premio Nobel assegnato per scoperte che riguardano i neutrini, che infatti rappresentano uno dei più affascinanti rompicapo della fisica contemporanea. La particella fu ipotizzata per la prima volta da Wolfgang Pauli nel 1930, ma fu Enrico Fermi a darle il nome attuale. Nei fenomeni radioattivi studiati dal fisico italiano una parte dell’energia sembrava “svanire” nel nulla. Fermi capì che essa veniva invece trasportata da questa particella veloce, leggera e priva di carica elettrica. Solo nel 1955 il neutrino fu rilevato direttamente, ma le sue proprietà sono rimaste misteriose. Purtroppo per noi, attraversa la materia quasi indisturbato ed è dunque difficilissimo intercettarlo e studiarlo.
Oggi sappiamo che il neutrino ha una massa piccolissima (ma ignota), viaggia a velocità prossime a quella della luce e si presenta in tre forme diverse: esistono i neutrini elettronici, quelli studiati da Fermi, ma anche quelli “tauonici” e “muonici” (dalle particelle tau e mu) a cui si associa. Fu un altro italiano, Bruno Pontecorvo, a teorizzare per primo che il neutrino potesse mutare da una forma all’altra. Secondo la teoria quantistica, questo presuppone che il neutrino abbia una massa. Ma ciò contraddice il modello Standard, la più affidabile teoria dell’universo sviluppata finora — la scoperta del bosone di Higgs, premiato nel 2013, ne aveva dato una conferma sperimentale apparentemente definitiva.
Kajita e McDonald hanno risolto la questione con due esperimenti analoghi. Kajita ha costruito un rilevatore di neutrini un chilometro al di sotto di una miniera di zinco a nord di Tokyo, mentre McDonald si è “nascosto” sotto un ex-giacimento di nichel dell’Ontario. In quelle condizioni estreme, dove solo i neutrini riescono a penetrare, Kajita e McDonald sono riusciti a contare (letteralmente) le particelle che giungono dall’atmosfera e dal Sole e a risolvere il mistero dei neutrini mancanti.
Le reazioni nucleari che accendono la nostra stella, infatti, dovrebbero generare solo neutrini del tipo elettronico. Eppure, secondo i rilevatori degli anni ‘60, i neutrini elettronici provenienti dal Sole sono molto meno numerosi del previsto. Qualcuno, allora, pensò che il Sole si stesse spegnendo, un’ipotesi tutt’altro che rosea per i terrestri. A salvare l’umanità pensò McDonald: il suo strumento, nel 1999, scoprì che i neutrini solari mancanti giungevano anch’essi sulla Terra, ma in un’altra tipologia. È il segno che i neutrini elettronici, nei 150 milioni di chilometri che ci separano dal Sole, cambiano forma, o come dicono i fisici, “sapore” (flavor). I dati raccolti da Kajita sui neutrini atmosferici combaciavano perfettamente e, negli anni successivi, altri laboratori come quello costruito sotto il Gran Sasso hanno confermato l’ipotesi di Pontecorvo: i neutrini “oscillano” da una forma all’altra. Dunque, hanno una massa e il Modello Standard andrà rivisto, chissà come.
Le scoperte di Kajita e McDonald, dunque, oltre a fornire nuove informazioni sui neutrini, hanno rimesso in moto la fisica. I neutrini, d’altronde, ci hanno abituato alle rivoluzioni. Il lettore ricorderà che, nel 2011, qualcuno affermò che andavano più veloci della luce, violando la teoria della relatività. Einstein tremò per qualche mese, poi si scoprì che c’era un guasto nell’apparecchiatura. Stavolta la crepa è nella teoria. Chi ha detto che la storia è finita, si è sbagliato di nuovo.
(pubblicato sul Manifesto di mercoledì 7 ottobre 2015)
I neutrini mutanti
Bergamini libero
A me il Post piace. Mi piace che se c’è la Luna rossa, facciano articoli sulla Luna rossa, non sul dito rosa che la punta. Sembra facile, ma lo fanno solo loro. Sul Post scrive anche Giacomo Papi. Giacomo Papi, ieri, ha pubblicato un pezzo per dire c’è un tizio a Modena che vende più di Saviano, e scrive di matematica. No, non si chiama Rovelli (quello scrive di fisica). Si chiama Bergamini, ha scritto il manuale di matematica più venduto alle superiori. Papi lo ha intervistato, e ha scoperto che Bergamini è un tipo interessante. È un ex-insegnante ed ex-preside e cita Calvino, Raffaello e le loro geometrie. Un vero intellettuale, che lavora “365 giorni l’anno” al suo libro, che continua a migliorare ogni anno, grazie anche all’aiuto della moglie, ex-insegnante e ora sua collaboratrice. Ci credo che venda più di Saviano, mica è un copia-e-incolla qualunque. Finalmente Papi gli ha reso la giusta fama.
Certo, c’è anche il merito della casa editrice, che ha saputo valorizzarlo: “Lei ha l’idea che avevo anche io all’inizio: una volta fatto il libro sono a posto. Invece la casa editrice mi chiese subito di farne un altro.” Ma come migliorare un simile capolavoro? Lo aiuta Calvino: “Tutta la mia opera in fondo è cercare ad avere sempre maggiore leggerezza”. Poi c’è la bellezza, e le discussioni con la moglie: “Perché questo esercizio l’hai buttato via?”. E io rispondo: “Non lo vedi che è brutto? Non è mica bello”.
L’intervista prosegue così, tra Calvino e Platone, fino alla fine. Bello, vero e giusto. Peccato quella nota stonata, che Papi non ha colto, e che spiega il vero significato dell’intervista: “Per fare una cosa sempre più bella l’unica è ascoltare la rete commerciale, che è la sola strada che ti fa conoscere le esigenze del mondo della scuola” Perché il Bergamini è bello, ma soprattutto caro, sui trenta euro a volume. Rende tantissimo e vende un milione di copie l’anno. Bisogna difenderlo dai suoi nemici, che sono le librerie dell’usato e i medici. Dal 1997 del Bergamini sono uscite ennemila “nuove” edizioni in modo che ogni anno gli alunni debbano comprare il libro nuovo invece che riciclare quello della sorella grande. Come si fa? Basta cambiare un esercizio (“non lo vedi che è brutto?”). Bisogna lavorarci sempre, ogni anno. Brutta bestia, quelli dell’usato.
Ma i medici? Gli ortopedici non smettono di dirci che gli zaini dei nostri fanciulli sono troppo pesanti, e noi? Zac, facciamo libri più leggeri, come voleva Calvino. Non ho mai sentito nessuno, alunno insegnante pediatra genitore o ministro, lamentarsi che il libro di quest’anno è più corto. Sistemati anche i medici.
Perché Papi non ha parlato di questo, dell’editoria scolastica fuori controllo che in questi giorni decurta la busta paga di milioni di famiglie? Perché non lo ha capito. Bergamini parla in codice.
Bergamini, infatti, non è un uomo libero. Probabilmente è stato sequestrato dalla Zanichelli che lo costringe a lavorare 24 ore al giorno alle nuove edizioni, i nuovi volumi, i nuovi esercizi. Altrimenti, da ex-preside si godrebbe la sua pensione calcolata col retributivo. Invece no, deve usare messaggi cifrati e sperare che qualcuno li capisca e organizzi un blitz per liberarlo. Ha cercato di farlo capire a Papi, con quella frase sulla rete commerciale che lo tiene prigioniero. E con altri messaggi sibillini ma non troppo: “Ci sono quaranta collaboratori che lavorano a ogni edizione, sa? Adesso, per esempio, ce n’è uno di là che mi aspetta.”
Ma il suo stesso libro nel tempo si è trasformato in un memoriale dalla prigione, un messaggio nella bottiglia finora incompreso. Ecco perché il suo manuale di matematica, nelle edizioni recenti, inizia così: “Le scritture usate oggi nel mondo sono 33. Con ognuna di tali scritture (alfabeti) si scrivono più lingue…” Bergamini ci sta chiedendo di capire il suo messaggio, teme di fare una brutta fine. La sua intervista è zeppa di riferimenti a forze oscure, parla de “la geometria che ci circonda ma che rimane nascosta.” Dà riferimenti geografici: “È più realtà quella lì, la puzza di pesce al mercato, o la mappa che ti permette di trovare un filo e ti fa andare da un punto all’altro della città? “. Forse la prigione è vicina alla pescheria. Altre metafore sono ancora da decifrare: “Un elettricista ha bisogno di un cacciavite. Noi siamo il cacciavite. Siamo solo la racchetta da tennis”.
L’agente Papi doveva salvarlo, ma ha fallito. Se non si fosse trattato di un umile ex-prof, per liberarlo avrebbero organizzato rastrellamenti, pedinamenti, sedute spiritiche. Per lui non hanno mosso un dito. È ancora qui, fermo, lo vedete bene?
La scoperta dell’acqua fredda
Con il solito senso dello spettacolo, l’Agenzia Spaziale Statunitense (NASA) ha annunciato di aver trovato indizi secondo cui su Marte scorre acqua “salata”, cioè contenente perclorati. L’annuncio è arrivato durante un’attesa conferenza stampa, annunciata con largo anticipo per ottenere la migliore audience internazionale. La Nasa ormai ci ha abituato a questi colpi ad effetto, capaci di trasformare una scoperta “minore” in un avvenimento mediatico globale.
La scoperta dell’acqua marziana è stata realizzata grazie allo spettrometro HiRise, messo a punto all’università dell’Arizona. Le immagini ottenute da HiRise mostrano un gran numero di solchi scavati sulle pendenze dei crateri marziani, in cui sono depositati sali di possibile origine fluviale. Secondo gli scienziati Nasa (e delle numerose università che hanno contribuito alla missione) l’acqua è attualmente presente su Marte, solo che evapora durante l’estate.
La scoperta dell’acqua su Marte non è un’assoluta novità. Immagini che dimostravano che quei solchi sono fiumi in secca furono ottenute già quasi dieci anni fa da altre sonde. In questi anni, però, le tecnologie di analisi sono molto migliorate e i dati di oggi sono più accurati. Per questo la Nasa oggi parla di “scoperta” (finding) e non di semplice ipotesi. La teoria dei canali su Marte, poi, circolava anche tra gli astronomi dei secoli passati. L’italiano Schiaparelli ne parlò già nel 1877, dopo averli osservati col telescopio. Per colpa di una cattiva traduzione (da “channels” a “canal”, che significa “canale artificiale”) i canali divennero il presunto lascito di una civiltà marziana.
Oggi le aspettative sono molto ridimensionate, ma l’acqua marziana interessa gli astronomi per un motivo analogo. Essa è ritenuta un ingrediente fondamentale dello sviluppo della vita sulla terra a causa delle sue peculiarità fisiche. Ad esempio, l’acqua ha la particolarità di diventare meno densa quando congela. Per convincersi, basta pensare ai cubetti di ghiaccio che galleggiano nell’acqua. Grazie a questa proprietà, gli organismi che abitano mari e laghi ghiacciati sopravvivono, in quanto al di sotto della crosta solida l’acqua mantiene una temperatura accettabile.
Il problema è che nella regione del sistema solare in cui si trova Marte, cioè a quelle condizioni termiche, l’acqua non dovrebbe trovarsi allo stato liquido – questo è il criterio con cui si definisce la “zona abitabile” di un sistema di pianeti che ruota intorno a una stella. È in quella zona che si cercano i pianeti extrasolari più “interessanti”, perché potrebbero ospitare vita. E Marte è considerato esterno a quella fascia di abitabilità. La scoperta di oggi cambia un po’ le carte. La presenza di sali, com’è noto, può modificare il comportamento dell’acqua consentendole di rimanere liquida – almeno temporaneamente – anche fuori da quella fascia. I pianeti con potenziale vita extraterrestre, per usare il linguaggio immaginifico della Nasa, potrebbero essere molto più numerosi. Festeggeranno gli ufologi. I dipendenti dell’ufficio stampa della Nasa, un po’ meno.
Avventure fuori dal mondo
Tra gli esperimenti realizzati da Samantha Cristoforetti sulla Stazione Spaziale Internazionale c’era anche il caffè. L’astronauta, infatti, in vista della lunga permanenza sulla stazione aveva portato con sé anche una sofisticata (e griffata) macchina in grado di preparare espressi e tisane in assenza di gravità. L’elettrodomestico sarà apprezzato anche dai turisti spaziali che in un prossimo futuro sosterrano i bilanci traballanti delle agenzie spaziali con i loro costosissimi biglietti di viaggio. Un domani, la Stazione orbitante con i letti a castello, le chat su Skype, i turisti in ciabatte e ora anche il distributore del caffè somiglierà a quei lussuosi ostelli scandinavi, puliti ma noiosetti?
Improbabile: malgrado sembri facile come bere un caffè, una missione spaziale comporta tuttora una notevole dose di rischio e gli imprevisti non mancano mai. In realtà, dal primo viaggio spaziale di Gagarin (1961) ci sono stati solo quattro incidenti mortali, con diciotto vittime in tutto su oltre trecento voli. Ma anche nelle missioni finite bene, spesso l’incidente tragico è stato evitato in extremis per la fortuna o l’incredibile abilità degli astronauti.
Alcune di queste avventure sono divenute celebri. Sulla missione Apollo 13 del 1970, destinata a giungere sulla Luna ma costretta a rientrare per l’esplosione di un serbatoio hanno fatto anche un film. I tre astronauti non drammatizzarono troppo («Houston, abbiamo avuto un problema», disse in realtà il comandante Lovell, a cose evidentemente già avvenute). Ma dovettero schiacciarsi per quattro giorni nel minuscolo modulo lunare e per ovviare alla mancanza d’ossigeno costruirono un filtro per l’anidride carbonica con il materiale a disposizione sulla navicella. Seguiti in mondivisione, riuscirono a tornare a casa e Lovell si prese anche la soddisfazione di una comparsata nel film sulla sua stessa vicenda.
Défaillance da dimenticare
Episodi del genere sono sempre stati abbastanza frequenti, anche se inizialmente non hanno goduto di grande pubblicità: la Guerra Fredda sconsigliava di esibire segni di debolezza soprattutto nell’Unione Sovietica, i cui cosmonauti nei primi tempi battevano regolarmente i colleghi americani.
Più che la perizia degli ingegneri, però, l’arma decisiva dei russi era la pellaccia dei loro astronauti. Uno dei più spericolati doveva essere Alexei Leonov, l’uomo che per primo ha fluttuato nello spazio fuori da un veicolo in orbita [continua sul sito del Manifesto, dove farsi l’account è gratis].
Scienziati in trincea
- La scienza in trincea. Gli scienziati italiani nella prima guerra mondiale” di Angelo Guerraggio (ed. Raffaello Cortina)
- “Al servizio del Reich. Come la fisica vendette l’anima a Hitler” di Philip Ball (trad. di D.A. Gewurz, ed. Einaudi)
da Il Manifesto del 4 luglio 2015
Parafrasando Margaret Thatcher che si riferiva alla società, agli uomini e alle donne, si potrebbe affermare che non esiste una cosa chiamata “comunità scientifica”, ma solo ricercatori e ricercatrici. È questa l’immagine restituita dalla lettura di due libri pubblicati da poco e vicini anche per l’oggetto trattato. Il primo ha per titolo “Al servizio del Reich. Come la fisica vendette l’anima a Hitler” e lo ha scritto per Einaudi Philip Ball, uno dei più noti divulgatori scientifici anglosassoni, grazie alla traduzione di Daniele A. Gewurz. Il secondo è “La scienza in trincea. Gli scienziati italiani nella prima guerra mondiale”, pubblicato dalo storico della scienza Angelo Guerraggio per l’editore Raffaello Cortina. Come il lettore avrà capito, entrambi gli autori analizzano come gli scienziati se la siano cavata in due momenti storici piuttosto problematici, in cui il concetto di “comunità” è stato messo duramente alla prova. Nel farlo, ci costringono a riconsiderare alcuni luoghi comuni piuttosto radicati sulla ricerca e sui ricercatori.
Per esempio, secondo un’opinione diffusa gli scienziati sarebbero immuni dai particolarismi che agitano le esistenze di noialtri incompetenti. Eppure, nella prima metà del Novecento il nazionalismo obnubilò anche le menti più brillanti, dividendo studiosi abituati fin lì a collaborare. Cervelli visionari capaci di vertiginose rivoluzioni scientifiche, infatti, non mostrarono anticorpi efficaci contro la propaganda di governo.
Lo testimonia l’adesione dei numerosi premi Nobel al manifesto Fulda (dal nome del suo estensore), con cui 93 intellettuali tedeschi difesero l’invasione del Belgio del 1914 negando atrocità già ammesse dagli stessi militari. Spiccò per la sua assenza la firma di Albert Einstein mentre un altro gigante, Max Planck, non fece mancare la sua (poi se la rimangiò). Sulla sponda opposta, l’interventismo anti-tedesco coinvolse matematici, fisici e chimici italiani, che in pochissimi mesi seppero convertirsi all’ideologia della “guerra giusta” (concetto più vecchio di quanto si pensi, osserva Guerraggio) contro una nazione alleata. Il più influente fu il matematico Vito Volterra, uno degli studiosi italiani più noti all’estero, che rinnegò in pochi mesi il suo neutralismo e le sue collaborazioni internazionali per arruolarsi all’istituto militare di aeronautica, dove poté mettere a frutto le sue conoscenze fisiche e matematiche. Uomo fin lì moderato, Volterra usò toni da scontro di civiltà contro i tedeschi, “i nuovi barbari la cui condotta ricorda le invasioni di altri tempi”. Insieme a lui si arruolarono scienziati di ogni orientamento politico. Picone, Severi, Fubini, Garbasso diedero un importante contributo alle scienze balistiche nel campo dell’artiglieria; Pesci, Ciamician e Paternò si dedicarono ai gas asfissianti e alle loro contro-misure; Molinari e Corbino lavorarono al settore esplosivi.
Una mente scomoda
Da “il Manifesto” del 24 giugno 2015
«A cinquant’anni, guardandosi allo specchio, uno si trova davanti un personaggio sul quale ci sarebbe molto da ridire», scriveva Marcello Cini nel 2001. Non fosse scomparso tre anni fa, oggi ne avrebbe novantadue, e moltissimo da ridire. Senza dubbio, il «personaggio Cini» ha ancora tanto da raccontare a chi lo la letto ieri o comincia a farlo oggi. Soprattutto, a questi ultimi risulterà utile il libro appena pubblicato dalle Edizioni ETS, Per una scienza critica. Marcello Cini e il presente: filosofia, storia e politiche della ricerca, antologia di diciannove saggi curata da Elena Gagliasso, Mattia Della Rocca e Rosanna Memoli. I contributi raccolti ricostruiscono il percorso scientifico, politico e filosofico di Cini e lo mettono alla prova su diverse questioni attuali, dalle neuroscienze alla non-neutralità del paradigma economico dominante.
Proprio sull’espressione «non-neutralità», Cini aveva una sorta di copyright. Ci sono diversi modi di criticare la scienza e gli scienziati, ma chi ne mette in discussione la «neutralità» fa quasi sempre riferimento a un celebre e stranissimo libro, L’ape e l’architetto, che Feltrinelli pubblicò nel 1976, l’editore FrancoAngeli nel 2011 e che valse a Cini la fama di «cattivo maestro». L’Ape, infatti, è una raccolta di articoli scritti da lui, cinquantenne e affermato docente di fisica teorica alla Sapienza, e da tre giovani colleghi (Giovanni Ciccotti, Michelangelo De Maria e Giovanni Jona-Lasinio). Vi si sostiene che la scienza, persino la fisica teorica più astratta, sia ideologicamente influenzata dal contesto capitalistico in cui opera. Dunque, non rappresenta di per sé un fattore di progresso sociale, come invece si riteneva anche nel Pci «sviluppista».
Ridammi quella pancia
Nel suo intervento all’ultima direzione del PD Renzi ha dato lezioni di garantismo a Rodotà. Rodotà, invocando l’articolo 54 della Costituzione (“I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore”) a proposito di Mafia Capitale, ha chiesto che anche prima delle sentenze certi incarichi siano revocati. Dunque Rodotà non vuole più gente in galera, come Renzi invece renzi gli attribuisce, ma meno cittadini disonorevoli nei consigli comunali, nelle commissioni, nei dipartimenti amministrativi. D’altro canto, il giustizialista solitamente invoca la legge, che ci dice cosa non possiamo fare, per estenderne oltremisura le conseguenze. La Costituzione invece non porta acqua al mulino giustizialista, perché sta lì a ricordare cosa dovrebbero fare i cittadini perbene come Renzi e Rodotà e dei delinquenti presunti si occupa poco, e per lo più a loro difesa.
Piuttosto, chi invece ha chiesto più galera è stato Renzi, proprio nello stesso discorso in cui ha attaccato Rodotà. Ha ritirato fuori la storia del diciannovenne (“di etnia rom”) scarcerato troppo presto dopo la tragedia di Boccea. Dalla platea del Pd non si sono sentite proteste. Eppure, parecchi media volenterosi hanno spiegato che quel diciannovenne non è colpevole non dico per la Cassazione, ma nemmeno per il Gip che si sta occupando del caso. Renzi ha fatto propria l’indignazione della destra e di chi, avendo fretta e poco tempo per farsi un’idea più accurata, si aspetta una giustizia altrettanto spiccia. Il video dell’intervento di Renzi sta qui.
Professore, la Finlandia copia!
Basta con le materie. Non si andrà più a lezione di matematica, storia, inglese e così via. Si studierà per argomenti interdisciplinari come «Il tempo in Europa», in cui le lingue straniere e la geografia si imparano nella stessa ora.
Dove succederà? In Finlandia, la «solita» Finlandia. Ormai nelle scuola la chiamano così. Perché ogni volta che si discute di come migliorare le nostre scuole, c’è sempre qualcuno che cita il paese di Babbo Natale come modello da seguire. Da anni, gli alunni finlandesi si piazzano ai primi posti delle classifiche mondiali per livelli di apprendimento, mentre i nostri arrancano nelle posizioni medio-basse. Le scuole finlandesi sono diventate meta di pellegrinaggio per gli esperti di didattica di tutto il mondo, alla ricerca dell’arma segreta.
I soldi, certo, contano. La Finlandia investe nell’istruzione circa il 7 per cento del Pil, contro il 4 per cento dell’Italia. Ma in termini assoluti non ci sono grandi differenze: se si esaminano gli investimenti per studente escludendo l’università, entrambi i paesi sono allineati nei pressi della media Osce. Se si osserva l’organizzazione del sistema, invece, le distanze aumentano. Le scuole finlandesi sono piccole, gestite in grande autonomia ma con un clima collaborativo tra docenti, presidi, alunni e famiglie. Niente test Invalsi e massima libertà sulla definizione dei programmi di studio.
Dalle conoscenze alle competenze
Talvolta può ricordare la scuola «Marylin Monroe» del film «Bianca» di Nanni Moretti. Per esempio la decisione di abbandonare l’insegnamento della scrittura a mano in favore della tastiera del computer a molti è sembrato un inutile nuovismo. Anche la nuova proposta di abolire le materie non riscuote apprezzamenti unanimi nella stessa Finlandia. Ma il governo non ha fretta: del resto, ogni cambiamento, sin dalla riforma del 1972 da cui è partito il rilancio finlandese, è stato attuato con estrema gradualità e costanza.
In realtà, l’innovazione di cui si sta discutendo oggi non è poi così rivoluzionaria. Persino in Italia, i famigerati programmi ministeriali sono stati aboliti già nel 2010 dalla riforma Gelmini, in favore di più flessibili «indicazioni nazionali» (continua sul sito del Manifesto, dove farsi un account è gratis).
Il blackout del sole
L’eclisse di sole è una festa per grandi e piccini. Nessuno vorrà perdersi lo spettacolo del sole nero a metà, che oggi, tra le nove del mattino e mezzogiorno, con il picco alle dieci e mezza, sarà visibile anche in Italia. Come tutti gli eventi astronomici rari, anche l’eclisse sta generando una discreta psicosi dal sapore millenaristico.
In Inghilterra, dove la luce solare calerà anche del 90 per cento in piena ora di punta, le autorità stanno diffondendo l’allarme tra gli automobilisti affinché non tolgano gli occhi dalla strada per godersi lo show. In Francia, invece, le autorità sanitarie hanno allertato addirittura i presidi. Di conseguenza, gli alunni delle scuole elementari parigine non potranno uscire all’aperto perché guardare il sole, sia pur dimezzato, senza protezione può provocare danni gravi alla vista.
L’eclisse, infatti, ha preso di sorpresa (si fa per dire) i produttori degli occhiali speciali necessari per guardare il sole in sicurezza e gli stock sono esauriti in tutto il continente. Eppure, la scienza della previsione delle eclissi dovrebbe essere assai sviluppata proprio in Cina, dove la maggior parte di questi occhiali sono fabbricati: già nel 2100 a.C. l’imperatore Zhong Khang fece decapitare gli astrologi di corte, rei di non aver previsto un’eclisse. Qualcuno ne sta approfittando per incrementare i suoi guadagni: su Ebay, occhialini di cartone da due o tre euro vanno all’asta per prezzi dieci volte superiori. In mancanza di lenti adeguate, quindi, è meglio rimanere in classe con le tapparelle chiuse (in Francia funzionano).
Anche gli scienziati stavolta approfitteranno dell’eccitazione popolare per raccogliere dati scientifici (continua sul sito del Manifesto, dove l’account è gratis).
Un doppio Aczel laico e devoto
“Perché la scienza non nega Dio” un laico non se lo chiede nemmeno. Se l’ipotesi divina non è necessaria, come sosteneva l’astronomo Pierre Simone Laplace, dimostrarne la falsità sarà altrettanto inutile. Amir Aczel, matematico e divulgatore nato a Haifa ed emigrato negli Usa, ritiene invece che un vero laico la domanda debba porsela eccome. Al punto da farne il titolo di un pamphlet appena pubblicato da Raffaello Cortina Editore nella traduzione di Pier Luigi Gaspa.
Quattro secoli dopo Galileo, la separazione tra scienza e religione non è ancora compiuta. Colpa di preti e mullah? Macché: secondo Aczel, i responsabili delle invasioni di campo sono i cosiddetti «Nuovi Atei» come il biologo Richard Dawkins, il fisico Lawrence Krauss, il neuroscienziato Sam Harris o il giornalista Christopher Hitchens, scomparso tre anni fa. Questo manipolo di mangiapreti sostiene che la probabilità dell’esistenza di Dio sia ormai trascurabile. La scienza, infatti, ormai eliminato uno dopo l’altro i «misteri» della natura che gli antichi attribuivano all’intervento divino. Ma un ricercatore, ricorda Aczel, non dovrebbe strumentalizzare il calcolo delle probabilità per trarne dubbie conclusioni sull’inesistenza di Dio – quello è il campo dei teologi. L’impeto laico dell’autore, però, si ferma qui. Il primo capitolo deve ancora iniziare.
A furia di confutare i «Nuovi Atei», Aczel (un nome, una piroetta) si innamora della tesi opposta: la scienza, caso mai, fornisce indizi in favore di un intervento divino. Come spiegare altrimenti il Big Bang nato dal nulla cosmico o la coscienza sviluppata dall’homo sapiens a un certo punto dell’evoluzione? Nessuna teoria scientifica darà una spiegazione razionale a questi fenomeni. La fede sì, e infatti Einstein nel 1913 frequentò la sinagoga di Praga – argomento non proprio solidissimo.
Aczel propone dunque un Dio «tappabuchi» come ha scritto giustamente Vincenzo Barone sul Sole-24 Ore? Una divinità parasubordinata non dovrebbe piacere nemmeno alla teologia ufficiale, eppure Pio XII salutando la teoria del Big Bang nel 1951 non la pensava diversamente: «La creazione nel tempo, quindi; e perciò un Creatore; dunque Dio! È questa la voce, benché non esplicita né compiuta, che Noi chiedevamo alla scienza».
Più che sul piano dottrinale, Aczel è inaccurato dal punto di vista scientifico e da quello epistemologico. La teoria del Big Bang, corroborata da molti dati empirici, è provvisoria come ogni ipotesi scientifica. Peraltro ve ne sono versioni diverse, cui vanno aggiunti i modelli secondo cui il tempo non sia «iniziato», ma sia sempre stato lì. La fisica, cioè, non si è arresa all’idea che la causa dell’espansione dell’universo debba rimanere fuori dal suo raggio d’azione.
In secondo luogo, la scienza non somiglia a un puzzle, i cui pezzi coprono poco a poco tutti i buchi rimasti. Quando una tessera va al suo posto, altri spazi si aprono e il puzzle scientifico non si completa mai. Le scoperte e la tecnologia, infatti, forniscono risposte ma generano anche nuove domande. Tappare i buchi dunque non basta più. Il Dio co.co.co. di Aczel dovrà anche sgusciare da un buco all’altro come un animale braccato — una vitaccia degna del jobs act (continua sul sito del Manifesto, dove l’account è gratuito).